
19 Feb Niente di buono dopo il terzo cocktail – Ep.1
Siamo sdraiati sul letto, ci teniamo per mano, i nostri respiri si fondono, abbiamo appena fatto l’amore. Il suo corpo è accoccolato accanto al mio, un attimo fa eravamo una cosa sola, ora siamo di nuovo due. Il respiro intenso e profondo è lo stesso di quando le sue unghie strisciavano sulla mia schiena, solo un po’ più regolare.
Si chiama Mary, è bellissima, la amo.
“Raccontami qualcosa di te” mi chiede “parlami dei tuoi ricordi”.
Allora ricordo e ritorno alla realtà, al fatto che questa ragazza la conosco da meno di un giorno e ritorno a ieri, quando sono uscito di casa salutando con un bacio Silvia, la mia compagna. Un bacio che non aveva più il sapore dell’innamoramento e dei ricordi del pomeriggio in cui ci eravamo conosciuti, quando eravamo fuggiti da una mostra d’arte noiosissima. E non aveva nemmeno il sapore della prima estate trascorsa insieme, delle gite in pedalò, delle partite a beach volley, del sesso riparatore dopo le prime litigate, come quel giorno che i miei occhi erano cascati su un culo da favola in spiaggia, oppure il giorno seguente, quando lei mi aveva fatto aspettare un intero pomeriggio, perché non sapeva cosa indossare, per andare al mare. Quel bacio non aveva il sapore della nostra canzone che suonava mentre ci stringevamo forte, ma il sapore delle serie tv che guardavamo sul divano la sera e che piacevano solo a lei, delle cene tutte uguali che mi preparava e di quelle speciali che non riuscivamo più fare insieme. Era il sapore delle volte in cui io volevo uscire e lei rimanere a casa, di quelle in cui lei voleva uscire ma io crollavo a letto, dopo il lavoro. Era il sapore delle litigate ma di quelle dopo le quali il sesso non c’era più e delle mattine in cui mi svegliavo domandandomi se il suo viso fosse ciò che volessi vedere come prima cosa ogni giorno.
Era stato dopo quel bacio che ero uscito di casa e avevo conosciuto Mary. Stavo chiamando Diego, il mio collega, con il vivavoce, mentre infilavo la mia potente Audi nel traffico. Era come un felino che scivolava tra le altre macchine, così come il corpo di Mary è scivolato sul mio per tutta la notte.
Io e Silvia ormai non facciamo più l’amore. Mi manca accarezzare il suo corpo, dalle cosce fino al seno, sentirla eccitarsi sotto il mio tocco. La sensualità è una magia ma quando la magia è smarrita, anche i piccoli gesti diventano goffi, quasi ingombranti.
Con Mary invece è ricomparsa anche la magia. Da tempo non facevo una simile scopata, ma non posso nemmeno chiamarla così, perché questo termine volgare sminuisce ciò che c’è stato tra di noi. L’ho conosciuta al semaforo. Odio i semafori rossi, io non ho tempo per i divieti. E se poi il rosso scatta mentre stai urlando al telefono, perché un idiota di nome Diego non trova l’ultima revisione della presentazione a cui avete lavorato nella cartella condivisa in Cloud, rischi di tamponare la piccola utilitaria che si è rispettosamente fermata prima di te.
Ma avvenne il contrario.
Era stata la piccola utilitaria a tamponare la mia Audi, ferma al semaforo rosso, come il sangue che perde la gazzella quando viene addentata dalla tigre. Ma invece del sangue, da quell’auto uscì una ragazza poco più bassa e poco più giovane di me.
“Mi dispiace”, urlava ed io ero già incantato dal suono di quella voce, simile alle melodie delle onde. Onde alte però, perché il mare era agitato.
Mi accesi una sigaretta e dissi: “Vediamo il danno… Fumi?” le porsi il pacchetto e lei scosse la testa. Aspirai, sorrisi, aggiunsi: “Mi assumo io la responsabilità… Al 100%. Accostiamo” indicai un posto “così possiamo compilare con calma la constatazione amichevole”.
“Senta… Non mi piacciono questi giochetti”.
“Nessun giochetto… Ti stai lamentando come una disperata perché la tua auto è nuova. E guarda il danno alla mia, si vede appena ma è costoso. E poi, cos’è questo “Senta”… Diamoci del tu, per favore”.
“Va bene, diamoci del tu. La ringrazio… Anzi ti ringrazio… Ma darci del tu non cambia le cose”.
“Mi chiamo Jonathan Modigliani e questo è il mio biglietto da visita… Chiamami, che ci accordiamo” le porsi il bigliettino bianco con i caratteri blu elettrico e il logo della società in cui lavoro. È una ditta che produce strumenti di misura.
Allungò automaticamente la mano verso il bigliettino. “Ma…”.
“Ti prego, insisto”.
Lentamente legge: “Account commerciale. Grazie Jonathan…”.
“Prego… Come hai detto di chiamarti?”.
“Non l’ho detto. Il mio nome è Maria Rosa Neveri. Ma tutti mi chiamano Mary”.
“Non ti preoccupare di nulla, Mary… Penso a tutto io”.
Fu difficile convincerla, soprattutto che non avevo alcun doppio fine, anche perché in realtà il doppio fine io lo avevo. Sono un account commerciale, ho sempre un doppio fine. In quel caso, desideravo ad ogni modo trattenere Mary nella mia vita ancora per un po’. E maliziosamente già mi domandavo che intimo stesse indossando o come sarei riuscito a convincerla a levarselo. Un po’ me ne vergogno ma è una cosa più forte di me, quando sono attratto da una donna, non riesco a non pensare a come possa essere senza vestiti e a quanto debba essere sexy il suo corpo nudo. E Mary, da questo punto di vista, mi stava ossessionando.
Qualcosa in lei mi aveva già colpito ed era qualcosa da cui non volevo più staccarmi. Mary mi aveva stregato ed io mi stavo innamorando ad una velocità spaventosa mentre ogni cosa stava sfuggendo al mio controllo. Il sentimento che stavo provando per lei, andava ad insinuarsi nelle crepe del mio rapporto con Silvia. Ogni piccola ferita, ogni trauma, ogni debolezza veniva lenita, addolcita da un sorriso o una parola di Mary. Ma avrei voluto chiudere subito, dimenticarla. Invece l’avevo invitata “a bere una cosa”.
Mi raccontò che era un’insegnante delle elementari, che aveva appena cambiato macchina, dopo che aveva tenuto per cinque anni una vecchia Twingo. Ovviamente aveva distrutto anche quella.
Rise. E le sue risa furono la meraviglia del mare, visto con gli occhi di una bimba. Gli stessi occhi che ebbe quando due ore dopo vide la suite dell’albergo.
Nuda, tra le lenzuola di cotone egiziano, è di una bellezza mozzafiato.
La sfioro, il suo corpo è un dono prezioso. La sua pelle è liscia, perfetta. I suoi capezzoli sono piccoli e chiari, il suo bacino è stretto e si muove quasi come se tentasse di sfuggirmi. Mi avvicino, la bacio, le sono sopra. È un gioco attraverso cui danzano i nostri corpi, mentre le sue mani mi afferrano per condurmi dentro di lei. Sto sbagliando, non dovrei essere qui, non dovrei comportarmi in questo modo. Eppure mi domando dove altro potrei essere. Il suo viso mentre viene è bellissimo, assolto in una smorfia di godimento tanto sublime da sembrare quasi dolore. È così sbagliato forse che un uomo viva una passione quando è così vera, forte, bruciante?
Abbiamo appena fatto l’amore, lei mi tiene stretta la mano e mi chiede: “Raccontami qualcosa di te, Johnny… parlami dei tuoi ricordi”.
Sorrido, ruoto appena la testa, mi perdo in quegli occhi che rievocano il mare e mi viene così naturale dirle quelle cose di cui praticamente non parlo mai con nessuno.
“Ho trentadue anni e miei ricordi più felici sono di quando ero bambino. Di quando correvo sulla spiaggia e mi emozionavo quasi piangendo, perché il mare mi sfiorava i piedi”.
“Davvero? È una cosa tenerissima”.
“È una sensazione che non ho mai dimenticato”.
Al mio rapporto con il mare sono legati i ricordi più preziosi, quelli dell’infanzia, di quando trascorrevo un intero mese in villeggiatura a Riccione. Meravigliosi ricordi di amici, castelli di sabbia, piste con le biglie, partite a pallone, a carte, a bocce, nuotate, gelati, le prime ragazzine. Provo una sensazione come di qualcosa che riemerge dal profondo. È un’emozione fortissima, una voglia di lasciarmi tutto alle spalle, di ricominciare da capo. Non è brutta la mia vita ma a volte è semplicemente insopportabile. Forse sto correndo troppo ma ormai non posso più fermarmi, in fondo che cosa ho da perdere? Ancora nulla ma se poi le cose dovessero diventare serie, invece potrebbe fare male. Adesso invece sarebbe soltanto qualcosa che non accade. È insensato, eppure sento di aver trovato una donna che mi capisce e mi completa, una donna capace di colmare il vuoto che ho dentro, come la marea riempie quello di una secca. Così mi dichiaro, con tutta l’intensità di cui sono capace: “Mary, io ti amo”.
Mi prende una mano, la fa scorrere sul suo corpo, sui suoi seni morbidi, verso l’inguine, facendomi sfiorare il suo paradiso e invitando le mie dita al suo interno, dolcemente. Mi guida per un po’ e in silenzio mi insegna ad accarezzarla in quel modo che le piace, mentre sento il suo desiderio aumentare insieme al mio. Poi viene sopra di me. Si muove, mi bacia, mi stringe, mi graffia.
Facciamo ancora l’amore, caldo, sudato, intenso, meraviglioso. La prendo da dietro, la afferro per i capelli, la guido nel movimento e riesco a sentire quanto piacere vibri in lei. Si stringe un seno ed alla vista di quel tocco sensuale, quasi rischio di venire. Poi scivoliamo l’una sull’altro, cambiamo posizione, si stringe con le cosce attorno alla mia vita e mi spinge le mani contro i pettorali. È di nuovo sopra di me, io sono ancora dentro di lei, godo e la sento godere, poi si ferma di colpo. Mi guarda, sorride, sembra imbarazzata. Un po’ impacciata, mi domanda: “Eri serio prima? Dico davvero… Eri serio prima?”.
La accarezzo, muovendo le mani sulla sua schiena sudata.
“Sì, ero serio. Io ti amo, Mary”.
“Mi dispiace”, sussurra. Mi bacia, delicatamente si sposta e si sdraia accanto a me. “Mi dispiace ma non posso ricambiare i tuoi sentimenti. Sono sposata”.
“Sei sposata” dico sotto voce. “E allora? Anche io ho una compagna. Ma se adesso noi siamo qui, insieme… tutto questo deve avere pur significato qualcosa anche per te?”.
“È più complicato di così. Ma è stato bello sognare”.
Rimango a fissare il soffitto, non so quanto tempo con esattezza. La marea è salita, ha riempito il vuoto che mi porto dentro e poi, il magnetismo della luna ha fatto ritrarre di nuovo le acque.
È sposata.
Adesso mi sento piccolo, ridicolo. Quindi, non prova niente per me? Vorrei farle molte domande ma non me la sento. E così mentre si alza, il vento la porta lontano da me.
Credo di essermi appisolato, poi un rumore mi sveglia. Mary è uscita dal bagno, si è appena fatta una doccia. Attraverso le pieghe dell’accappatoio intravedo un capezzolo, immagine di tenerezza. Lo fisso a lungo e immagazzino ogni dettaglio di quell’immagine, per scolpire nella mia mente l’ultimo ricordo del suo corpo, consapevole che sto perdendo per sempre qualcosa di importante. E fa davvero male.
Dice: “Mi dispiace, adesso devo proprio andare”.
Mi accendo una sigaretta, fisso il soffitto.
Mi domando come sia andata la riunione, forse è ora di chiamare Diego, per farmi aggiornare. E dovrei anche sentire Silvia.
Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 2
Giovanni Maglietta
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