Niente di buono dopo il terzo cocktail – Ep.5

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Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 1

Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 2

Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 3

Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 4

La vita a volte fa male. È scura e intensa come questo caffè ma più dolorosa. Sto girando lo zucchero col cucchiaino, nella speranza di addolcirlo. Ma la sua sostanza amara non cambia. Sono seduto al tavolino esterno di un bar bio, in zona Brera. Di fronte a me c’è Adele. Adele, la mia fidanzatina delle superiori. Adele, con la quale vivere era come stare sempre su una giostra. Ero stato innamorato di lei per tutta la quarta superiore. Ricordo che la fissavo durante le lezioni, che impazzivo quando mi toccava o anche semplicemente quando mi parlava. Quel pomeriggio in cui le chiesi di mettersi con me, eravamo andati al luna park dell’Idroscalo. Fu lei ad insegnarmi a baciare davvero. Il nostro primo bacio fu su una panchina. L’avevo stretta a me, le avevo dato un bacetto sul collo e poi avevo scostato delicatamente i capelli dietro all’orecchio, per baciarla sulla guancia e quando si era voltata, avevo sfiorato le sue labbra. Poi mi ero allontanato un attimo, prendendo un respiro e stavo per riavvicinarmi, quando la sentii ridere.

Mi immobilizzai all’istante, passando alla velocità della luce, dalla sensazione di essere il ragazzino più figo della scuola a quella di essere l’ultimo dei nerd, mentre lei non smetteva di ridere.

Si calmò e disse: “Scusa, scusa… Colpa mia, ho aperto gli occhi, forse non dovevo, ma tu…”.

“Cosa?”. E fu in quel momento che mi disse che con gli occhi chiusi e la linguetta di fuori, sembravo una lucertola.

“Guarda” mi disse, mentre si avvicinava con le labbra dischiuse, sfiorando le mie. “Questo è sexy, capisci? Solo dopo, la lingua”. E mi baciò.

Insieme era tutto magico, anche a diciassette anni, quando il mondo è un casino e la vita è una lotta. Ma non con lei. Era maggio, quando ci mettemmo insieme. Poi a fine dell’anno scolastico, lei si trasferì e decidemmo di lasciarci. Mi sentii come quando ero bambino e papà portava in soffitta l’albero di Natale, al termine delle feste.

La rividi qualche anno dopo, in un giorno di pioggia. Stava sotto la pensilina dell’autobus. Faceva freddo e l’acqua scendeva dal cielo con un’inclinazione tale che ripararsi era impossibile. Stava avvolta in una giacca impermeabile con un cappuccio in testa. Scoperti solo gli occhi, ma impossibile non riconoscerla.

Accostai.

“Adele?”.

Il bavero scostato, un sorriso.

Le diedi un passaggio e parlammo. Le dissi che frequentavo l’università e quanto stavo male a vivere con i miei. Brave persone i miei, ma a quell’età avevo bisogno di spazio, libertà, indipendenza. Ci promettemmo di tenerci in contatto. Trascorsero sei mesi prima di rivederci, per una birra con alcuni amici. Mi presentò i suoi coinquilini, una ragazza brasiliana e un ragazzo omosessuale di Chieti che si chiamava Mauro. Sopra le righe, simpatici, mia madre li avrebbe considerati cattive compagnie, mio padre ci sarebbe andato d’accordissimo. Frequentavo spesso casa loro, era piena di amici, gente interessante, ragazze. Giravano alcool e droghe leggere in quantità. Poi un giorno, Mauro dovette tornare al paese. Era a Milano per l’università ma non aveva ancora mai dato nemmeno un esame e così i suoi genitori gli avevano tagliato i fondi. Fu quel giorno, quasi per caso, quando Adele mi disse: “Dovremo trovarci un nuovo coinquilino”, che io risposi: “Vengo io”. Eravamo completamente ubriachi e l’idea ci sembrò meravigliosa. Abitammo insieme per due anni stupendi.

“Ricordi di quella sera in cui…”.

Lei si era appena mollata con il ragazzo. Un bellissimo giocatore di rugby, con un radioso futuro nell’azienda del padre. Uno stronzo.

Adele aveva passato gli ultimi due mesi a sfogarsi con me, ed io da amico, avevo cercato di darle solo consigli disinteressati. Ma come può essere disinteressato un consiglio, quando ci sono di mezzo emozioni e sentimenti? E così cercavo di farla ragionare su quanto quella storia fosse sbagliata per lei e su quante alternative migliori esistessero, ma stando attento a non sbilanciarmi. Ogni volta che lei mi guardava come se fosse stata pronta a ricambiare i miei sentimenti, il mio cuore perdeva un battito mentre speravo che si allungasse per baciarmi. Ma ciò non avveniva e alla fine lei tornava immancabilmente con lui. Finché un giorno, fu proprio lui a piantarla, senza spiegazioni.

Adele girava spesso per casa in mutandine e con un t-shirt. Lo aveva sempre fatto, anche quando abitava con Mauro. Solo che io non rimanevo indifferente alle forme del suo corpo, come Mauro. A volte si chinava in avanti e le mutandine aderivano, mostrando i suoi profili più intimi e in quei momenti dovevo prendere profondi respiri per controllarmi. Da quando si era lasciata con quello stronzo era più depressa, ma, per qualche motivo, la sua apatia la rendeva ancora più sexy. I capelli sciolti, la magliettina consumata dei Nirvana e quelle mutandine portate con disinvoltura. “È come stare in costume da bagno” diceva. Ma non è la stessa cosa e poi, non è che con un costume da bagno aderente le cose sarebbero state tanto diverse. Per lei ero come un fratello, solo che io non ero suo fratello.

Quella sera, avevamo trascorso l’intero pomeriggio sul divano, lei con le gambe sopra le mie, a raccontarmi di come non riusciva più a vivere senza quell’idiota e facendomi curiose domande esistenziali. Io l’avevo ascoltata e consigliata come solo un amico innamorato può fare e insieme avevamo bevuto quasi una bottiglia di vino e si era fatta ora di cena. Poi mi aveva detto: “Ti cucino un risotto!”.

Rimasi imbambolato a guardarla davanti a quei fornelli, mentre con grazia incredibile, faceva soffriggere la cipolla e tostava il riso. C’era una canzone degli Aerosmith in sottofondo. La stava canticchiando. Mi avvicinai da dietro e le presi le mani.

“Cosa stai facendo?”. La feci ballare, poi i nostri corpi si sfiorarono, i visi furono a contatto, lei si voltò e ci baciammo. Mi spinse sul divano, senza mai staccare le labbra dalle mie.

Ci eravamo visti in mutande centinaia di volte ma in quel momento, mentre il risotto bruciava sul gas, era tutto diverso, nuovo, infuocato, proibito. Mi aprì la camicia, infilando le mani sotto la canottiera, sollevandomela, afferrandomi i pettorali, scivolando con le dita lungo la schiena e mi avvicinò a lei, mentre io le sollevavo la magliettina fino all’altezza degli occhi, bloccandole anche le braccia e la baciavo nel modo che lei mi aveva insegnato, quando eravamo adolescenti. La baciavo sulla bocca, sul collo, sfiorandola con le labbra e la lingua, mentre raggiungevo i seni. E sentivo il suo corpo che si dimenava, quando le sganciavo il reggiseno. Mi erano mancate tanto le sue tette e finalmente ero felice all’idea di poter baciare e mordicchiare di nuovo quei capezzoli, che erano stati i primi su cui le mie labbra si erano posati. Mi lasciai scivolare in ginocchio, mentre afferrai i bordi delle sue mutandine ed iniziai a sfilarle, lentamente.

Ritrovai il suo piccolo clitoride e poi le grandi labbra, mentre le mutandine scivolavano giù sulle sue cosce, quando disse: “Non posso”.

Ero eccitato, confuso, credevo stesse scherzando, invece era seria.

“Cosa?”.

Con un movimento delle braccia fece ricadere la magliettina dei Nirvana che le ricoprì i seni, con un movimento delle gambe fece invece cadere a terra le mutandine, lasciando in vista le sue parti più intime.

“Mi dispiace, non posso. Sei troppo importante per me” e mentre quelle parole di cui non coglievo il senso si mettevano tra noi, si stava già allontanando.

La guardai dirigersi verso il bagno, seguendo le sue splendide natiche che danzavano ad ogni passo. Si avvicinò al fornello, spense il gas su cui bruciava il risotto e poi uscì dalla porta della cucina. Sono convinto che stesse piangendo. Per terra c’erano ancora le sue mutandine.

L’avevo persa, nell’istante stesso in cui mi ero illuso di averla conquistata. Poco dopo, mi disse che voleva trasferirsi.

E adesso è di nuovo qui davanti a me, che addenta un muffin vegano e ride. Sono passati tanti anni, il suo sguardo è intriso di tutte le sofferenze che ha attraversato ma la sua risata è sempre la stessa.

La sua risata mi riporta al luna park dove ci siamo messi insieme da ragazzi, allo zucchero filato, alla dolcezza di quando mi aveva stretto la mano e mi aveva tirato a sé perché voleva che l’accompagnassi sulla ruota panoramica. Quanto è cambiata da allora. La ragazza bionda, decisa e solare con cui avevo condiviso l’appartamento, si era gravemente ammalata. E così la malattia l’aveva prosciugata, le aveva portato via la salute e il bell’aspetto. I suoi occhi resistevano, lottavano ma apparivano tristi e stanchi. È appassita, come quella pianta di filodendro che aveva portato un giorno a casa nostra e di cui aveva promesso di prendersi cura. Dopo due settimane era ingiallita e se non fosse stato per Christie, la pianta sarebbe morta. Invece si riprese. Adele però non si sarebbe ripresa.

Ha ordinato un centrifugato. “Sono buoni” mi dice.

“Davvero?”.

Si accende una sigaretta.

“Ma tu puoi…”. Mi zittisce con un rassegnato sguardo di sfida ed io giro gli occhi in imbarazzo. Scrolla le spalle e non me la sento proprio di insistere.

È trascorso un mese e mezzo dalla sera in cui ci eravamo rivisti su quel balcone e quella sera, in effetti, stava fumando una canna. Da allora, molte volte abbiamo provato ad organizzarci, per un caffè. Poi ieri mi ha scritto: “Vediamoci. Domani pomeriggio. È importante”.

Il suo tono era urgente, per questo ho preso un permesso dal lavoro.

Assaggia il centrifugato. “Non è così buono in realtà” si fa un gustoso tiro di sigaretta e la spegne “Sono due anni ormai che mi hanno diagnosticato questa malattia…” schiaccia la sigaretta nel posacenere “Purtroppo non è stata presa in tempo e c’è poco da fare. Lo sento, Johnny, il tempo a mia disposizione è poco”.

“Non dire così”.

Non so cos’altro dire e vorrei non mostrare questa espressione di pena, da imbecille. Vorrei poter fermare il tempo e riavvolgerlo, tornare a quando stava bene, oppure vorrei poter viaggiare nel futuro fino al giorno in cui non inventeranno una cura per il suo male. Invece sono bloccato nel presente e il tempo continua a scorrere implacabile, accompagnando per mano Adele verso il suo inesorabile destino.

“Non pensare sia una cosa tanto brutta. Ci sono giorni in cui sto veramente male… Non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto. Poi altri giorni, come oggi… vedi? Posso illudermi di stare bene e non ci penso, davvero… quasi. Non pensarci completamente è impossibile, per quanto allontani la mente da quel pensiero, c’è sempre il suo spettro che ti insegue, come un’ombra. A volte spalanca la bocca, pronto a divorarmi. Ma anche quando stavo bene, provavo questa sensazione. Il vuoto non è cambiato, solo che mentre prima il mio malessere era solo psicologico, adesso è anche fisico. Ma non è che questo allora renda di colpo la mia vita tanto più difficile. Almeno, intravedo la fine. Fa paura ma rende anche tutto più semplice. Questo mi da’ forza”.

“Sei una persona straordinaria… non devi mollare”.

“Lo sono molto meno di quanto immagini”.

“Hai un fidanzato?” ma perché glielo sto chiedendo?

“Johnny…”.

“No” rido “Abbiamo avuto la nostra occasione. Voglio solo sapere se c’è un uomo al tuo fianco… qualcuno che possa prendersi cura di te”.

“C’è una persona… Mi sta vicino… Lui è innamorato, ma io lo considero solo un amico. Anche perché sai, in queste condizioni… Non voglio che qualcuno si leghi troppo a me”.

“Non credo che abbiamo davvero il potere di deciderle noi, queste cose. E forse non ne abbiamo nemmeno diritto. Non possiamo mettere paletti all’amore”.

Raccoglie con le dita le briciole del muffin, concentrando lo sguardo sul piccolo contenitore per i rifiuti al centro del tavolino, fa una smorfia amara. “In altre circostanze, la tua corte l’avrei accolta con interesse sai? Tu hai una compagna?”.

“Sì. Conviviamo da un paio d’anni” guardo i fondi di caffè nella tazzina e vorrei leggerci dentro il mio futuro come le fattucchiere nel medioevo. Vorrei avere la certezza che tutto andrà bene, ma nulla sta andando bene davvero. Forse però, una sbirciatina al futuro mi permetterebbe almeno di evitare gli errori o forse quegli errori sono già presenti e quindi inevitabili. Dico: “All’inizio era tutto meraviglioso. Una favola. Adesso invece… è un casino. È un po’ che tra di noi la situazione si è… raffreddata, diciamo”.

“A volte può succedere” Adele posa una mano sulla mia “Nelle relazioni lunghe è normale”. Mi accarezza e sembra surreale che sia lei a consolare me.

“Due mesi fa abbiamo avuto un litigio terribile. Tutta colpa mia… e Silvia se ne è andata, per un’intera settimana”. È meglio che io ritragga la mano adesso, questo contatto sta durando troppo e ciò che sento mi spaventa.

“La colpa non è mai da una parte sola”.

“Ti assicuro che la colpa in questo caso è solo mia” scuoto la testa.

“Tutti commettiamo errori”.

“Da quel giorno, le cose non vanno più bene tra noi. A parole, Silvia mi ha perdonato. Ma io la sento distante. È cambiata”.

“Non penso che che le persone cambino davvero, sai? Non in questo senso almeno”.

“Cosa intendi dire?”.

“Quelli che a noi sembrano cambiamenti… almeno questa è la mia opinione… sono solo reazioni agli stimoli esterni. La tua compagna si è indurita… ma dentro, è sempre la stessa donna di cui ti sei innamorato”.

“Chissà… lo spero proprio”.

“Sono passati due mesi, eh? Forse dovreste affrontare l’argomento”.

Poi, io e Adele parliamo di tante altre cose, della nostra adolescenza, degli aneddoti di quando vivevamo insieme, mi racconta della sua vita, del fatto che ha una piccola cartoleria. “Davvero?”.

“Sì e gli affari non vanno neanche male… Con la malattia è difficile ma non voglio mollare, il lavoro mi tiene viva. E per fortuna c’è chi mi aiuta”.

Allora le racconto del mio lavoro e lei dice: “Ma tu ti stavi laureando in filosofia! Come sei finito a fare l’account commerciale?”.

“Diciamo che l’ho presa con filosofia… pessima battuta, scusami. No, è che… Ad un certo punto ho mollato… mi piaceva ma non vedevo sbocchi e così sono passato al ramo commerciale. La vita è fatta anche di cose concrete”.

“Capisco. Te lo sei mai domandato?”.

“Che cosa? Se avessi potuto diventare un grande filosofo?”.

“Se tra di noi avrebbe potuto funzionare”.

Faccio trascorrere più tempo di quanto avrei voluto mentre cerco le parole migliori per esprimere quello che provo e al tempo stesso per fare in modo che ciò abbia il minor impatto possibile sulle nostre rispettive vite. “Ti ho amata Adele. Che dico… ti amo ancora” guardo la tazzina “Da qualche parte, dentro di me, provo ancora gli stessi sentimenti. Lo so, lo capisco quando ti guardo negli occhi, dal fatto che ogni tanto mi manchi e vorrei telefonarti… Non so esattamente cosa sia l’amore, quale sia la differenza tra i sentimenti provati per te o quelli che sento per la mia compagna… Quando ero più giovane credevo nell’amore come quello dei grandi film romantici… Ma a poco a poco che le storie finiscono, capisci che, con ogni persona per cui hai provato qualcosa di speciale, si crea un legame, una connessione… Con ognuna è diverso eppure, tra tutte… c’è quel primo amore che non puoi dimenticare. Forse perché quella storia è stata scritta su un libro vergine, perché quei sentimenti erano puri e carichi di sogni… Forse perché oggi sono qui davanti a te e sento il sentimento riaccendersi… ma quei sogni ora non ci sono più” abbiamo entrambi gli occhi lucidi, la mia voce si incrina “Io ci ho creduto… ma per provarci davvero bisogna essere in due”.

Con un filo di voce, dice: “Anche io ci ho provato…”.

“Ma poi ti sei trasferita e hai deciso di chiudere”.

“Mio padre aveva cambiato lavoro, lo sai…”.

“E sei andata via anche quando stavamo per provarci di nuovo”.

“Era un periodo complicato per me, quello”.

“Era sempre, un periodo complicato…Lo so, non ti sto dando colpe” ma l’accusa è nel mio tono, quindi mi interrompo e poi mi addolcisco, rassegnato “È la vita ad essere così. Forse non era destino. Ma per rispondere alla tua domanda, sì, credo che tra di noi avrebbe funzionato”.

Scoppia a piangere. “Anche io ti ho sempre amato. Per questo non ti volevo vicino. Io sono un disastro, così almeno, ho preservato il nostro amore”.

Le afferro le mani. “Ma che dici?”.

“L’unico modo per conservare puro un sentimento è evitare di viverlo. Quando lo contaminiamo con la nostra umanità… è finita”.

C’è una lunga pausa, poi aggiunge: “Tu oggi provi ancora questi sentimenti per me, perché noi li abbiamo preservati. Se avessimo avuto una relazione, saresti entrato in contatto con i lati più oscuri della mia anima e anche il nostro amore si sarebbe consumato, come quello tra te e Silvia”.

“Ma cosa dici? Abbiamo vissuto insieme. Abbiamo fatto l’amore. Abbiamo litigato. Quali dei tuoi lati oscuri pensi che io non conosca?”.

“Baciami”.

Ci baciamo, dolcemente, teneramente. È un bacio che sigilla l’esperienza di una vita che avrebbe potuto essere ma che non abbiamo vissuto. E mentre ci baciamo provo una sensazione di terrore, ho paura che potrei non rivederla mai più. Ho un flash del suo funerale, del momento in cui caleranno la bara e poi la copriranno. Sarà il momento in cui la vita porterà per sempre via da me il suo corpo fisico. Ed io sarò lì, a mescolarmi tra i suoi parenti straziati dal dolore, che mi vedranno come un intruso. Solo suo fratello mi conosce e per quanto io ricordi, non era mai riuscito a sopportarmi. Non vorrei pensare a questo mentre la bacio ma è impossibile evitarlo, la mente funziona così. Male. Ho un leggero mancamento e vorrei che questo bacio durasse per sempre, ma come ogni cosa, anche questo bacio è destinato a finire.

Solo, cammino e mi accendo una sigaretta. Inspiro una lunga boccata, mi sento impotente. La vita è veramente una merda. Faccio un ultimo tiro, lascio cadere a terra la sigaretta ed entro in un bar. Ed è come entrare in un luna park abbandonato da anni, deserto, di quelli in cui senti solo cigolii e il vento che, sibilando tra le giostre, produce versi simili a quelli dei fantasmi.

Niente di buono dopo il terzo cocktail – Episodio 6

Giovanni Maglietta

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