
22 Ott Vite alternate – Ep.1
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Una storia, una salita. Una strada, una matita. Ho sentito prima i versi di questa canzone alla radio, ma non mi viene proprio il titolo. Ultimamente scordo troppe cose. Per fortuna ho questo ciondolo che mi aiuta a non dimenticare. Era il 1965, l’anno di “Giulietta degli spiriti”, il primo film a colori di Federico Fellini.
Rimini è cambiata ma i colori delle onde sono gli stessi e mi riportano a quell’estate, quando io avevo appena nove anni. I miei piedi sono molto più grandi di allora eppure posano sullo stesso cemento, i miei occhi erano molto più ingenui ma scrutavano lo stesso mare. Per chi come me vive a Milano, l’odore del mare è una cosa stupenda. Lo era quando avevo nove anni e lo è ancora oggi che ne ho sessantuno. Era proprio il 1965 perché quell’anno usciva “Giulietta degli spiriti” e mio padre era un critico cinematografico e adorava Fellini. Si chiamava Anthony ed era nato a Londra.
Ripeteva sempre: “Sono nato lo stesso anno della sorella minore della regina Elisabetta”.
La sorella della regina è morta, così come anche mio padre è morto, quindici anni fa. La regina invece ha novantadue anni e continua a regnare.
Il mare oggi profuma di momenti passati e che non torneranno. Sono davanti alla discoteca Rock Island, con le sue ampie vetrate a picco sul mare e l’insegna blu che illumina le notti della riviera. Ma adesso è giorno e l’insegna è spenta. Prima di quell’incendio, questo era solo il ristorante Belvedere con le svedesi che prendevano il sole sul terrazzo mentre noi ragazzini scavalcavamo la balconata per tuffarci in mare. Una volta qui si arrivava in macchina, oggi non si può più. Ma io sono a passeggio, quindi non importa.
Ero proprio in questo stesso punto, quando la vidi per la prima volta. Anche lei era solo una bambina, poco più bassa di me, con i capelli castano chiaro raccolti in una coda. Indossava un vestito a fiori e mangiava un Mottarello. Aveva nove anni e stava con sua mamma, una donna dagli occhi grandi e tristi.
Alzò la manina aperta e la agitò in segno di saluto. Così, senza un particolare motivo, perché spesso non ci vuole un motivo affinché le cose avvengano. O forse il motivo c’era ma io non lo conoscevo. Da giovane ero convinto che prima o poi avrei compreso tutti gli interrogativi della vita. Crescendo ho trovato solo nuove domande. Forse le risposte non esistono, forse io non sono abbastanza intelligente da comprenderle o forse, sono le mie domande ad essere sbagliate. Ma arrivato alla mia età, lo accetti, che certe cose non le capirai più. Non è proprio così in realtà, semmai, impari a convivere con questa consapevolezza. Ad essere davvero, davvero sincero però, non impari mai a conviverci, semplicemente lo sopporti e diventi insofferente. Credo sia l’insofferenza il motivo per cui invecchiando si dimenticano le cose. Ma quel momento invece è impresso nella mia memoria, come una cartolina. Il profumo della salsedine, lo scintillare degli scogli, gli spruzzi delle onde, le ali dei gabbiani, il sorriso di quella bambina, gli occhi tristi di sua madre, il gelato ricoperto di cacao, la mano con cui mi salutava, il sole a metà della sua parabola discendente, il mare piatto su cui si vedevano poche vele bianche in lontananza, la gente che passeggiava sul molo e poi di nuovo lei, la bimba con il vestitino a fiori che mi stava salutando.
Gli spaghetti con le polpette di mia madre erano una straordinaria fonte di felicità. Se avessi pensato che un giorno non avrei più potuto mangiarli, ne avrei mangiati molti di più. O forse no, perché purtroppo il problema della felicità è che non possiamo immagazzinarla. Se così fosse, potrei portare con me quella in eccesso per utilizzarla quando mi sento triste e solo. Sarebbe bello se invece di prendere la pillola per la pressione, quella per lo stomaco e il diuretico, potessi avere la pillola della felicità. Penso che mi terrei volentieri anche le malattie, se potessi avere una dose giornaliera di felicità. Invece, con noi possiamo portare solo i ricordi e la malinconia che li accompagna. E in quel momento, a tavola con mia madre e mio padre, era il ricordo di quella bambina a tormentarmi. Chi era? Dove stava? Cosa stava facendo?
Intanto la pasta si raffreddava mentre io fissavo il vuoto, con il mento sorretto da una mano. “Giuseppe, eat your spaghetti, come on!” diceva mio padre.
“Jamme Giusè, mangia che si fredda” diceva mia madre.
L’imperativo di lei era di solito più efficace del tono conciliante di lui. Arrotolai gli spaghetti intorno alla forchetta come mi aveva insegnato a fare la mamma e mangiai un boccone. Il sugo era ancora caldo, come la sabbia che bruciava sotto i piedi, appena ci spostavamo da sotto l’ombrellone.
“Non preoccuparti, Giusè, i piedi si abituano… E poi prendi il sole che ti fai tanto bello… prima diventi tutto rosso e poi ti fai scuro, scuro, come piace a mammà. Vai a giocare con gli altri bambini? Fai il bravo, mi raccomando”.
E poi la rividi, con il suo costumino a righe bianche e blu e le ciabattine colorate.
“Ciao, io mi chiamo Elisa. E tu?”.
“Io sono Giuseppe”.
Una sera mio papà propose alla mamma di Elisa di portare noi bambini fuori per un gelato. E quella poi, divenne un’abitudine. Con la mamma di Elisa, mio padre parlava di cose difficili e del suo lavoro di scrittore per una rivista di cinema. Mia madre non aveva mai voluto ascoltare quelle storie, le riteneva noiose. Invece erano divertenti secondo me. Fu durante quelle sere che lo sentii dibattere con insistenza su “Giulietta degli Spiriti”. Diceva: “Audace nella storia, intelligente e provocatorio. Vedrai che i cattolici non lo perdoneranno”.
“Perché?” rispose la mamma di Elisa, arricciandosi una ciocca di capelli con un dito.
“Perché quel film è una meravigliosa condanna alla loro insensata morale”. Poi rise. Mio padre aveva ricevuto un’educazione protestante e criticava spesso la morale cattolica. Quando ciò avveniva a casa, mia madre si faceva il segno della croce e ripeteva: “San Gennaro non lo ascoltare, non sa chill’ che dice”.
Passeggiavamo sul lungomare, oppure in Via Amerigo Vespucci che poi diventa Viale Regina Giovanna. Più raramente invece, facevamo un giro sul molo. Ogni volta che si sentiva quel fischio inconfondibile, la mamma di Elisa diceva: “È la Maria Vittoria che parte per la sua piccola crociera serale. Una di queste volte dovremmo proprio prenderla”.
“Sìììì!” diceva Elisa.
Non siamo mai saliti sulla Maria Vittoria. Però ogni sera mangiavamo il gelato. Lo compravamo alla gelateria Nuovo Fiore che aveva aperto proprio l’anno prima. Io, cioccolato e nocciola. Elisa di solito con la fragola e poi un altro gusto, vaniglia, o forse stracciatella. Crema, ecco! Lei lo prendeva sempre fragola e crema e lo mangiava con il cucchiaino. Scavava nel cono, mangiava prima il gelato e solo dopo, il biscotto. I gelati una volta erano più buoni, non ti facevano venire sete.
C’è anche quella gelateria che ha aperto una catena e il cui slogan dice: “Il gelato come una volta”. Ma io ricordo come era una volta e il loro è diverso.
L’ultima sera che mangiammo il gelato con Elisa, fu un venerdì. L’aria era frizzante e si vedevano le stelle, molte più di quante se ne vedano adesso. La luna si rifletteva negli occhi di Elisa, da lontano si udiva il liscio suonato sulle spiagge e nelle balere, più vicino il fischio della sirena della Maria Vittoria che rientrava in porto. Un po’ per caso, un po’ apposta, giocando e rincorrendoci, io ed Elisa ci appartammo dietro la palafitta del ristorante Belvedere. Dalla nostra posizione potevamo osservare i nostri genitori ma loro non riuscivano a vedere noi. Poi, io ed Elisa cominciammo ad imitare quasi involontariamente, ogni loro movimento.
Io mi avvicinai di un passo, proprio come aveva fatto mio papà verso sua mamma. E anche Elisa si avvicinò, proprio come sua mamma, verso mio papà.
Lei chiuse gli occhi e dischiuse le labbra, imitando sua madre.
Io posai le mie labbra sulle sue, imitando mio padre.
Poi i nostri genitori si scostarono e quella strana energia si disperse per non tornare più. Noi, invece tornammo subito a casa, accompagnati da uno strano silenzio.
“Abbiamo anticipato la partenza a domani. Non so perché, lo ha deciso mio papà. Dice che ha un impegno di lavoro importante e non può rimandare. Ma non vedo l’ora di tornare, l’anno prossimo”.
“Speriamo”.
“Perché dici così?”.
“Solo una sensazione”. Si alzò sulle punte e mi sfiorò le labbra con un bacio, poi disse: “Apri la mano”. Mi diede un piccolo ciondolo a forma di cuore. “Tieni, così non ti dimenticherai mai di me, qualunque cosa accada”.
“Perché, cosa dovrebbe accadere?”.
“Nulla… spero”.
Strinsi la mano a pugno attorno al ciondolo e poi la riaprii. Lo porto sempre con me ancora oggi, anche se non lo indosso mai.
Infilo una mano in tasca ed estraggo quell’oggetto che, dopo cinquantadue anni, continua ad essere tanto importante. E lo guardo. La mia mano è più grande, mentre il ciondolo è sempre delle stesse dimensioni. Stringo la mano a pugno e per un momento torno a quell’istante esatto di perfezione, in cui ammiravo la luna riflettersi negli occhi di una bimba di nome Elisa.
Si potrebbe cancellare tutto il male, lo berrei come assenzio…
Assenzio! Ecco come si chiama quella canzone.
Giovanni Maglietta
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