Vite alternate – Ep.2

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Vite alternate – Episodio 1

Dopo tanti anni e tanti viaggi, sono di nuovo a Rimini. Qui è dove sono nata, ma in fondo è solo un posto come un altro, con le sue spiagge, i lidi colorati, il lungomare, la ruota panoramica, l’anfiteatro romano, l’arco di Augusto. Una città intrisa di storia, vita, emozioni e divertimento ma anche di stupidità e di sogni infranti.

Rimini, con il suo mare che non è mai profondo ma può diventare rosso per la mucillagine.

Rimini, la culla del liscio di Raoul Casadei e di quella sua canzone che ricordo con malinconia e rabbia. È quella canzone che mia madre amava cantare d’inverno, quando guardava il mare attraverso il vetro della finestra del nostro appartamento, al ventesimo piano del grattacielo. La cantava con la voce colma di tutta la tristezza che non riusciva ad esternare in altro modo e quasi sussurrava: “Ciao, ciao… Ciao, ciao mare… Io ti vengo salutare, tu mi vieni a salutare… Ciao, ciao… Ciao, ciao… mare”.

Tra me e mia madre esisteva una strana connessione. A volte era come camminare sull’orlo del baratro del suo cuore, altre volte invece cadendo in quel baratro, lei mi afferrava la mano e allora potevamo volare, sopra i cieli della città, sulle luci quasi arancioni della costa, sul mare. E poi salivamo verso la luna e le stelle, esploravamo l’universo e infine tornavamo davanti a quella finestra a cantare: “Ciao, ciao… Ciao, ciao mare…”.

La domenica ogni tanto, mi vestiva in modo carino e poi mi portava in centro. E spesso tornavamo a casa con un nuovo vestitino colorato, oppure con scarpe adornate di laccetti o fiorellini. Quando mamma mi preparava per uscire, poteva anche impiegarci alcune ore. Adorava spazzolarmi i capelli, farmi sfilare per scegliere i vestiti e spiegarmi i suoi trucchi di bellezza. Aveva una cipria speciale che non è come quelle che usano le ragazzine oggi. La comprava da un’estetista che la preparava apposta per lei, selezionando accuratamente le polveri e pesandole su una serie di bilancine. Poi le riversava su un foglio e le mescolava, prima di raccoglierle e lasciarle cadere in una macchinetta che serviva a compattarle. Oggi in quest’epoca in cui tutti vogliono la personalizzazione ma comprano in serie, un simile prodotto funzionerebbe molto bene. Solo che non c’è. Chissà se tra dieci anni magari, qualcuno ci penserà. Oggi guardo il mondo e mi sembra che stiamo un po’ ritornando ai valori di una volta. Speriamo, penso. Ma poi penso anche che quei valori di una volta che adesso rimpiango, sono gli stessi per cui la mia generazione ha lottato per distruggerli.

Quando penso a mia madre, vorrei abbracciarla e chiederle scusa per tutte le cattiverie, come quando a quattordici anni le ho urlato che avrei fatto il possibile per non rimanere incastrata in una vita di merda come la sua. Solo crescendo ho compreso i miei errori, ma adesso non posso più chiederle scusa, non fisicamente almeno. Una donna pensa che quando si arrivi alla mia età, non si soffra più per le persone perdute. Invece il dolore cambia forma e matura, ma ci accompagna tutta la vita. La mamma continua a mancarmi e il ricordo di lei appoggiata con un gomito sullo stipite della finestra, è sempre con me.

Quando penso a mio padre invece, provo solo odio. Era un avvocato, rispettato da tutti, ma quando varcava la soglia di casa, si trasformava in un orco. Ci ha fatto così tanto male che non sono nemmeno andata al suo funerale. E ho smesso di chiamarlo papà a nove anni, una sera in cui ero nascosta dietro lo stipite della porta e l’ho visto fare una cosa terribile. Fu proprio la mattina dopo quel terribile fatto che conobbi Giuseppe.

“Andiamo sul molo e ci prendiamo un gelato?” disse mia mamma.

Mi piaceva il Mottarello. Mia nipote mangia il Mottarello ancora oggi. Mia figlia Cassandra compra la confezione da sei che oggi è marchiata Nestlé oltre che Motta e riporta la dicitura “senza glutine”. Oggi, per vendere i prodotti bisogna farli “senza”: senza glutine, senza lattosio, senza grassi idrogenati. Senza olio di palma. Quando ero bambina, non avevamo la minima idea di cosa fossero il glutine o il lattosio ma nessuno stava male. Sono cose che non capirò mai.

Sulla nostalgica confezione incastrata nel reparto surgelati del frigo di mia figlia c’è scritto: “Mottarello, dal 1940 lo stecco dei ricordi”. Ma nessuno che mangia oggi quel gelato può ricordare il 1940, perché nessuno di noi lo ha vissuto, nemmeno io che ho sessantadue anni. Misteri della pubblicità.

Ai miei tempi con 120 lire, il Mottarello lo compravo al bar. E lo potevo scegliere in due gusti, bianco oppure nero. E la ragazza bionda sul cartellone sorrideva, tenendo in mano entrambi i gusti, sotto lo slogan: “nutre e rinfresca”. Tutto era molto più genuino, o almeno facevano in modo che lo sembrasse. Mia figlia non può nemmeno far portare a mia nipote a scuola un dolce fatto in casa. Ma quelli erano i miei tempi, appunto. E mentre davo un morso al gelato, la mamma disse: “Guarda che belli che sono i gabbiani. Volano liberi e felici nei cieli, nessuno dice loro cosa devono fare. Ti piacerebbe essere gabbianella per un giorno?”.

Giuseppe era un bambino con i capelli rossastri e le lentiggini. Mi guardava fisso, come se fossi un regalo di compleanno. Così mossi la mano in un cenno di saluto e lui ricambiò. In quello stesso istante, mia madre alzò gli occhi. Suo padre si sfilò gli occhiali da sole in celluloide, facendoli scivolare sul naso e incrociando sopra di essi lo sguardo di lei. La guardò con gli stessi occhi di Giuseppe, quelli con cui, molti anni dopo mi accolse quando mi presentai a casa sua senza alcun preavviso. Era il 1976. Di quell’anno ho il ricordo di una fotografia sbiadita in cui abbraccio un grosso cane. Me l’aveva scattata con una polaroid Mirko, il padre di mia figlia. Nella foto la pancia ancora non si vede, ma la bimba era già con noi.

Durante l’estate, io e Mirko avevamo viaggiato per mezza Italia con il suo furgone. Ascoltavamo beat e fumavamo erba in continuazione.Facevamo di tutto su quel furgone e non scendevamo per giorni, se non per le necessità più impellenti. C’era un odore terribile sul nostro furgone ma per me quell’odore significava casa. Ricordo che quando dormivo, strafatta oppure ubriaca, oppure strafatta e ubriaca, spesso il mio cuscino era una copia della rivista “Giovani” sopra copie impilate di altre riviste. Quando trovava un bel posto, Mirko si fermava e si metteva a suonare ed allora il tempo perdeva ogni significato. Ogni tanto stazionavamo in qualche paesino e lui faceva dei lavoretti di fortuna, racimolando i soldi per il cibo, la benzina e un po’ di droga. Quando i soldi erano veramente pochi e la fame tanta, commettevamo anche piccoli furti. Eravamo una buona squadra, io distraevo i commercianti e lui con destrezza recuperava ciò che ci serviva. Per qualche giorno tirammo su un autostoppista. Un ragazzo che viaggiò con noi per la Toscana, da Firenze fino a Bologna. Durante il viaggio, una sera in cui ci eravamo particolarmente sballati, facemmo sesso tutti e tre insieme. Fu la mia prima esperienza di gruppo. Poi ci salutammo e non lo rividi mai più.

Non ricordo perché Mirko avesse insistito tanto per andare a Bologna, ricordo solo che ci trattenemmo lì per qualche settimana, ospiti di alcuni suoi amici. Fu proprio a Bologna che scoprii di essere incinta. Mirko disse che si sarebbe preso cura del bambino ma io non volevo che rinunciasse ai suoi sogni di musicista. A vent’anni a volte si prendono decisioni stupide e così, in una notte di pioggia, lasciai il furgone senza farmi vedere e fuggii. Aspettai la mattina per salire sul primo treno, dormendo su una panca nella zona di attesa per i passeggeri, avvolta in alcuni giornali. E nell’ora più fredda poco prima dell’alba, era come se mille spilli mi stessero trafiggendo.

Il treno su cui salii era un accelerato di quelli che facevano tutte le fermate ed ovviamente, ero senza biglietto. Passai buona parte del viaggio a studiare gli occhi spaventati del riflesso che mi fissava attraverso il finestrino sporco, sfiorandomi con la mano la pancia che conteneva una nuova vita. Avevo con me soltanto quella copia della rivista giovani con i Rolling Stones in copertina e 400 lire in tasca. Ero nervosa ed impaurita, avrebbe potuto passare il controllore. Allora andai nel passaggio di collegamento tra due carrozze. Stare lì mi aiutava a rimanere attenta ma mi sentivo come se quel pavimento potesse aprirsi e risucchiarmi. Mi infilai in bagno e ci rimasi, sperando che il controllore passasse e non tornasse e sperando che non mi vedesse, perché ero incinta, senza biglietto, senza soldi, senza documenti.

Non avevo alcun riferimento se non il suo cognome e l’indirizzo sulle lettere che mi aveva spedito. L’unica speranza era di risalire al suo numero attraverso l’elenco telefonico e provare a contattarlo. Per fortuna il numero era sull’elenco e per fortuna riuscii a parlare con lui invece che con i suoi genitori. Ricordo ancora il momento in cui mi mostrò il ciondolo, quello che gli avevo regalato a nove anni e che lui, nonostante tutto, aveva conservato.

Mi guardo le mani, non sono più le stesse di allora, quelle che stringevano le mani di Giuseppe. Sono avvizzite e sono il simbolo dell’età e del tempo che passa e non fa sconti a nessuno, impronta di sacrifici, lotte e dolori.

Oggi sono malinconica. Guardo verso il mare, questa distesa azzurra e infinita e immagino che anche l’amore, in fondo sia così. L’amore è un mare, azzurro, infinito, vivo, che ti trascina sulla sua corrente, ti travolge con le sue onde. Può portarti alla morte come alla vita, alla felicità e alla tristezza. Mia madre guardava il mare attraverso la finestra al ventesimo piano di un grattacielo e cantava una canzone colma di malinconia. Io oggi guardo il mare, questo mare, il mio mare, dopo anni che ho provato a dimenticarlo e soffro.

Non so quanto mi tratterrò qui, ma presumo che questa sia l’ultima volta che torno a Rimini.

Ciao, ciao…

Ciao, ciao, mare…

Io ti vengo a salutare, tu mi vieni a salutare.

C’è un uomo con gli occhiali da sole dall’altra parte del molo. Sta fissando una coppia di adolescenti che mi è appena passata davanti. Abbassa gli occhiali da sole sul naso con un gesto che ho visto fare tante volte e per un attimo, i nostri sguardi si incrociano. Possibile che sia davvero lui? Si è ingobbito, i capelli sono più diradati e veste proprio come un vecchio, ma non posso sbagliarmi. Cosa ci fa qui?

Per fortuna non mi ha riconosciuta, non sopporterei più di farlo soffrire di nuovo. Mi volto verso il mare e allungo a fatica un braccio dolorante come se potessi afferrarlo. Ma il mare non si può afferrare, così come non si può afferrare l’amore. Si può solo viverlo quando si presenta, oppure non riconoscerlo e mandarlo via, così come ho sempre fatto io e come sto facendo ancora una volta, anche adesso che ho sessantadue anni.

Addio Giuseppe.

Giovanni Maglietta

Vite alternate – Episodio 3

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