Vite alternate – Ep.3

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Vite alternate – Episodio 1

Vite alternate – Episodio 2

Alle sei di sera, seduto sotto l’ombrellone, con gli occhiali da sole sul viso e la retro (così si chiamavano a quei tempi le Chesterfield blu a Milano) che penzolava dalla bocca senza mai cadere, mio padre suonava A hard days night, Yellow submarine e altre canzoni dei Beatles. Aveva una chitarra con il manico storto e che si scordava in continuazione. A casa ne aveva altre, tra cui una Eko e una Daniel Friederich di una serie numerata. Gliel’aveva regalata un cliente facoltoso a cui mio padre aveva fatto un grosso favore. Produceva un suono perfetto ma io preferivo la chitarra dal manico storto, quella che portava sempre in spiaggia. Con quella, era lui. Non era fatto per i suoni precisi e puliti, la sua musica era roca e sporca. A volte teneva volontariamente alcune corde leggermente scordate, perché gli piaceva l’effetto. Suonava così intensamente che una volta un tocco di cenere si staccò dalla sigaretta e gli cadde nel bicchiere del whisky. Mamma, quando succedevano cose del genere, lo interrompeva sempre urlando, perché non voleva che fumasse in casa, visto che io ero piccolo. Forse aveva ragione ma era impossibile distogliere mio padre dalla sua chitarra. Era come se facessero sesso. In spiaggia, passava quasi tutto il tempo a leggere e a scurire la sua carnagione chiara al sole, in silenzio. Sembrava quasi non ci fosse e poi, all’improvviso, impugnava la chitarra e diventava il re.

Quell’anno eravamo andati in vacanza con la sua nuova Rover P5, quella color verde bottiglia. Avevamo l’autoradio e papà e mamma avevano litigato tutto il viaggio perché mamma aveva portato una cassetta di Nino D’Angelo e lui aveva detto che se si azzardava ad inserirla, l’autoradio sarebbe volata fuori dal finestrino. Non sarebbe mai successo davvero ma lei rimase offesa fino a sera.

“Antonì, l’anno prossimo jamme dove vuoi tu. Nun fa accussì” diceva mia madre.

“Ma potremmo almeno stare in hotel”.

“Con chell’ che costa? Son soldi ittati” e poi lo prendeva in giro, cantando: “Quest’estate… non cambiare… stessa spiaggia stesso mare” e faceva anche la mossa, muovendo le braccia e le anche a destra e sinistra, a tempo di musica.

Così ogni anno andavamo a Rimini, nello stesso appartamento e affittavamo sempre lo stesso ombrellone al solito lido, il “Bagno sette”. Il bagnino si chiamava Alfio ed era un gigante con baffi lunghissimi. Indossava sempre canottiere abbondanti e sembrava non invecchiare mai.

“Ma perché non prendiamo posto più vicini a riva, darling? Così, if we wonna swim it’s better” si lamentava mio padre.

“Ja, Tony… Oh sai che c’a è chiù comodo!”.

“Oh my god…” e mio padre si sdraiava a leggere il giornale.

Ogni sera, quando la gente si avviava a casa dopo una giornata di mare, lui si sedeva sul lettino, con la sigaretta in bocca e le sue dita si muovevano sicure sulle corde. Aveva una predilizione per i Beatles e la sua preferita era “A hard day’s night”. A volte, vibrando, le corde producevano un suono appena metallico, altre volte andava leggermente fuori tempo. Ogni tanto piccoli gruppi di persone si fermavano per ascoltarlo cantare. Anche la madre di Elisa. Mia madre, invece, se ne andava infastidita. Diceva: “Noi andiamo in appartamento che Giuseppe deve lavarsi”. E mi costringeva a tornare con lei, anche se io volevo rimanere con papà e soprattutto con Elisa. Una sera che mia madre era rientrata da sola, rimanemmo fino a tardi.

“Bambini vi va un gelato?” disse mio padre. Io ed Elisa stavamo giocando con la sabbia e sotto il nostro ombrellone era rimasta solo sua mamma. Papà aveva smesso di suonare da tempo, la chitarra appoggiata nella sabbia. Sorrisi ed annuii, stringendo in mano il cappellino alla pescatora da cui non mi separavo mai ed ero contentissimo.

Non mangio quasi più il gelato. Troppi zuccheri e il freddo mi da fastidio alle gengive. Non ho nessuno con cui mangiarlo. Da giovane andavo alla piscina comunale e nuotavo, fino a tre volte a settimana. Nel 1993, quando portavo i capelli con la riga in mezzo e vestivo come Fiorello che presentava Karaoke, ero arrivato a fare sessanta vasche. Adoravo il contatto con l’acqua e scivolare sulla sua superficie, allontanava ogni pensiero. Mi piaceva nuotare nei giorni di pioggia, quando i temporali battevano ritmicamente sul tetto della piscina. In vasca mi sentivo davvero libero, come in nessun altro posto, anche se in realtà era una libertà fittizia, perché le piscine dei centri sportivi sono come gabbie. In fondo che differenza c’è tra una ruota su cui corre un criceto e la corsia in cui nuota un essere umano? Forse il fatto che noi possiamo entrare ed uscire da quella piscina quando vogliamo. Eppure anche il criceto entra ed esce dalla ruota quando vuole ma rimane sempre in gabbia. Nel 1993, a 37 anni, stavo finalmente per sposarmi. Con Carla. Una bella ragazza, con un paio di occhiali dalla montatura a farfalla e che indossava sempre un cappello stile ferroviere del primo dopoguerra, grande almeno tre taglie oltre la sua, coi capelli ingelatinati e un ciuffetto che spuntava fuori. L’avevo conosciuta ad una cena di lavoro, lei era la cameriera che serviva al nostro tavolo. Per qualche strano motivo, io che sono così timido, continuavo a farle battute e a stuzzicarla e lei rispondeva, divertita. Non che ci stessi provando, semplicemente, con lei mi veniva naturale. Alla fine di quella lunga serata la convincemmo a sedersi al tavolo con noi e bere del limoncello.

“Quando stacchi?”.

“Tra mezz’ora”.

“Noi stiamo andando in un altro posto dopo, vuoi unirti a noi?”.

Alla fine mi ero offerto di riaccompagnarla a casa, perché sembrava brutto lasciarla tornare in taxi. E così mi ritrovai a parlare con lei fino al mattino, nella mia Fiat Tipo digitale.

Ci frequentammo per qualche settimana, poi ci mettemmo insieme e poco dopo, le chiesi di sposarmi.

Lei era quella giusta.

Tossisco, i miei bronchi sono deboli. Mi accendo una sigaretta, non dovrei fumare, lo so. Ho cominciato pochi anni fa. Sono sempre stato un accanito sostenitore della lotta contro il fumo, poi, un giorno, in un raro momento di onestà intellettuale, ammisi che la mia non era virtù ma solo paura e che avevo sempre desiderato fumare.

La mia prima sigaretta l’avevo trovata in un pacchetto che conservavo in casa. Era un pacchetto che per me aveva un significato speciale e che in alcune serate malinconiche mi rigiravo tra le mani, ripensando al passato. A volte, seduto da solo nella penombra al tavolo della cucina, tiravo fuori le sette sigarette che erano rimaste dentro e me le passavo tra le dita, oppure le avvicinavo al naso e ne sentivo l’odore. Poi le rimettevo a posto. Quel pacchetto era di Elisa e risaliva al periodo della nostra ultima convivenza. Se ne è andata per sempre da casa il 5 ottobre 2011, il giorno in cui morì Steve Jobs. Ricordo distintamente che stavamo guardando assieme il telegiornale, in silenzio. Io ero seduto sul lato destro del divano, lei sul sinistro. Appresa la notizia, dissi: “Incredibile, non posso credere che se ne sia andato anche lui”. E lei rispose: “Tutti ce ne dobbiamo andare prima o poi”. Pochi minuti dopo, come ogni sera mi addormentai sul divano e al mio risveglio, lei non c’era più

Mi aveva scritto un sms di poche righe in cui mi diceva che dopo quel messaggio avrebbe cambiato numero per sempre e di non provare più a cercarla. Mi manca. Ancora oggi, certe volte, la sera dopo cena stringo il ciondolo che mi aveva regalato più di cinquant’anni fa, cercando conforto nel ricordo. Avrei desiderato darle almeno un ultimo bacio. Se mi sfioro le labbra con la punta della lingua, mi sembra di sentire ancora il sapore delle sue. Ogni tanto, nelle sere in cui mi sento solo, mi giro di lato, abbraccio un cuscino e poi mi addormento, immaginando sia lei. Ma se n’è andata e non tornerà mai più. E adesso, ancora una volta, mi rimane solamente questo ciondolo.

La prima sigaretta la fumai in casa, completamente da solo. La estrassi dal pacchetto e la rigirai tra le dita, come avevo fatto tante altre volte. Ne tastai la consistenza, l’avvicinai al naso e ne inspirai l’odore di tabacco. La accesi e tirai forte. Il fumo invase la bocca e le vie respiratorie. Tossii, la saliva mi stava bloccando la gola, la spensi immediatamente.

Mi sdraiai, chiusi gli occhi e piansi, ripensando alla mia vita.

Riprovai il giorno seguente e quello dopo ancora. Per anni ho fumato solo in casa, la sera, nella mia solitudine. È da quando sono in pensione che ho trovato il coraggio di fumare in pubblico. Sono in pensione da un mese. Mentre cammino in strada, con la sigaretta in bocca, aspirando pochissimo, mi sembra sempre che la gente mi guardi. Anche se per lo più credo di essere indifferente ai loro occhi. Ma fumare tra la gente mi aiuta a sentirmi meno solo. A volte fumo negli angoli di raccolta per fumatori, nella speranza che qualcuno, per qualche motivo, inizi una conversazione con me. Ogni tanto succede, più spesso no.

Una coppietta sui quattordici anni, si avvicina. Lui mi chiede: “Avrebbe una sigaretta?”.

“Ma voi quanti anni avete? Non dovreste fumare, fumare fa male”.

“E lei quanti anni ha? Alla sua età, nemmeno lei dovrebbe fumare” e la ragazza aggiunge “Fumare fa male anche a lei”.

“Io sono vecchio… stronzo e rincoglionito. Dovessi morire domani, non mi interessa. Voi avete una vita davanti. Ma tenete… Tanto se non ve la do io, ve la darà qualcun altro”.

Lei sorrise, prese le sigarette dalla mia mano e disse: “Grazie… lei non sembra affatto così stronzo”.

“E nemmeno rinconglionito” aggiunse lui.

Non so esattamente definire cosa provassi per quella bambina di nome Elisa ma nelle sere d’inverno, quando i miei litigavano, il ciondolo che mi aveva regalato mi dava la forza di resistere. E il periodo da settembre 1965 a luglio 1966 fu per me un unico count-down del momento in cui avrei potuto rivederla. Ma quando finalmente giunse l’estate, un pomeriggio di giugno, mio padre disse: “Quest’anno non andremo a Rimini. Io e la mamma abbiamo deciso di cambiare meta delle vacanze, vedrai, ti piacerà”.

Di quella vacanza in Spagna, ricordo la chitarra sempre mezza scordata di papà e le donne che si fermavano ad ascoltarlo. La gelosia di mia madre, ridicolizzata da quel modo in cui lui parlava in inglese e la faceva sentire stupida e lei che invitava sotto l’ombrellone tutti i turisti italiani che incontrava, meglio se del sud. Mio padre non li sopportava. Litigavano in continuazione. Lui voleva andare in città per una visita culturale, lei a cena con i suoi amici italiani. La mamma allora usciva con i suoi amici e papà rimaneva sotto il parasol, così chiamano l’ombrellone gli spagnoli, e suonava la chitarra. Alcune donne gli tenevano compagnia. Belle donne. Ogni tanto qualcuna strizzava l’occhio o applaudiva e diceva: “Bueno, suena muy bien”. Papà allora scostava appena gli occhiali da sole e ringraziava. Una ragazza bionda in particolare, era una sua ammiratrice. A volte lei e papà rimanevano soli mentre io giocavo poco distante. La mamma ogni tanto urlava, papà allora le dava le spalle e si sdraiava con una sigaretta in bocca, a leggere un romanzo. “Guerra e pace” di Tolstoj.

Una mattina mia madre mi svegliò e mi mise su un autobus mentre ancora mi stropicciavo gli occhi. Qualche ora dopo eravamo su un aereo. Continuava a ripetere: “Vediamo se quello stronzo di tuo padre la capisce adesso”. Ed io stringevo il mio ciondolo, nella speranza che il ricordo di Elisa mi aiutasse ancora una volta, a sopportare tutto.

Un pomeriggio ricevetti una sua lettera. Mi salutava, mi chiedeva come stavo. Da allora, cominciammo una corrispondenza molto fitta e più passava il tempo, più lei mi raccontava degli altri ragazzini e mi parlava meno di noi. Mi raccontava dei suoi problemi a scuola, di quanto suo padre urlasse ogni sera, di come sua madre non fosse capace di reagire, di suo fratello e che avrebbe voluto fuggire da quella casa. Diceva che si sentiva libera di parlarmi, perché io ero l’amico del cuore, quello che la capiva. Un giorno mi disse che si era innamorata di un certo Tommy, un suo compagno di classe. E fu come ricevere una pugnalata. Me ne parlò a lungo, per tutto il periodo in cui Tommy non la considerava, poi mi raccontò di quando lui si accorse di lei e infine di quando si misero insieme. E mi chiese di consolarla, quando la lasciò. E dopo Tommy, arrivarono Marco, poi Gabriele, Fabrizio, poi di nuovo Tommy, mentre io continuavo a sperare che una di quelle lettere, prima o poi parlasse di me.

Io e mia mamma ritornammo a Rimini nel 1970, quando avevo quattordici anni. Senza papà, che andava in Spagna da solo, come aveva fatto anche l’estate precedente. Per lavoro, diceva. Io e la mamma questa volta andammo in albergo, perché mamma era stanca e non aveva più voglia di faticare, questa volta per due settimane, perché l’albergo era più costoso, anche se comunque lei era contenta di spendere i soldi di papà, questa volta al lido del bagno cinquantuno, perché mamma non voleva avere più niente a che fare con il passato.

E non cantava più: per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare.

Giovanni Maglietta

Vite alternate – Episodio 4

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