
19 Dic Vite alternate – Ep.4
Hai già letto le puntate precedenti?
Purtroppo quando scopri di essere malata di cancro, non hai la forza di ragionare, puoi solo fuggire. C’è chi dopo averlo scoperto fa qualunque tentativo per affrontare il male, chi si sconforta e non riesce più a reagire e poi c’è chi, come me, dice: “Ok, se non è grave, posso continuare con la mia vita, basta tenerlo sotto controllo”. Solo che tenere sotto controllo significa anche continuare a far esistere quella cosa nei propri pensieri, e nei pensieri di chi ci vuole bene, mentre è molto più facile dimenticarsene e fingere che non esista. È sbagliato e ci si potrebbe aspettare che passati i cinquant’anni, io fossi sufficientemente saggia e matura da non comportarmi in modo tanto irresponsabile ma la verità è che per quanto si cresca, certi difetti non cambiano. Giuseppe non ha mai sospettato nulla della malattia e sono contenta di avergli evitato almeno questa sofferenza.
Mi accendo una sigaretta, è una goduria. E fanculo il cancro, fanculo la bronchite cronica, fanculo i dolori, i dottori tutti con le loro regole e fanculo a questa vita di merda. Espiro e sto decisamente meglio. Quando il tumore si è aggravato ed è andato in metastasi, fumavo venti sigarette al giorno. Dicevano che ero pazza e molte volte in quel fottuto letto d’ospedale ho litigato perché ritenevo inconcepibile che non mi facessero fumare. In televisione c’era Forum, con Rita Dalla Chiesa e ricordo che urlavo contro quelle persone che mi sembravano così stupide, perché litigavano per motivi ridicoli e non sapevano cosa fosse la vera sofferenza. Avevano ragione i dottori, ero pazza, lo sono sempre stata. E sono loro debitrice per avermi impedito di fumare e avermi aiutato a trovare la forza di reagire. Fu il giorno dopo essere uscita da quel letto d’ospedale, che sentii il desiderio di ritornare un’ultima volta, nell’appartamento al ventesimo piano da cui mia mamma guardava il mare, appoggiata al davanzale della finestra. Ma era stato per fuggire da quell’appartamento che ero salita su un furgone e avevo attraversato l’Italia, a seguito di Mirko. Mangiavamo biscotti alla marjuana, bevevamo Peroni, sperimentavamo, cercavamo l’essenza della vita. Una notte, dopo aver assunto LSD, avevamo fatto l’amore ed era nata Cassandra.
A quell’età si prendono decisioni stupide e siccome ero convinta che una figlia avrebbe rovinato la sua carriera da musicista, fuggii. Salii su un treno senza biglietto ed arrivai a Milano, dove cercai il numero di Giuseppe su un elenco telefonico, per poi chiamarlo da una cabina.
Dopo tre squilli, Giuseppe rispose: “Pronto”.
Avevo pochissimi gettoni, speravo sarebbero stati sufficienti.
“Pronto, ciao Giuseppe”.
“Ah, sei tu”.
Silenzio.
Fu il suono che indicava che uno dei gettoni era caduto, a farmi ritrovare la forza di parlare. “Sì, sono io… sono a Milano”.
“Davvero? Cosa ci fai qui?”.
Ma non lo capisci che ho bisogno di aiuto? Ero scoppiata a piangere, a dirotto.
“Dove sei?”.
Era sceso un altro gettone, di lì a poco la conversazione sarebbe caduta. “Sono appena arrivata alla stazione Centrale, con il treno”.
“Esci in piazza, c’è un palazzo con tantissime insegne, aspettami sotto quella gigante con la scritta Candy. Arrivo”.
Poi la linea era caduta.
Mezz’ora dopo, stavo seduta sui gradini di pietra, sul marciapiede davanti alla piazza principale della stazione Centrale dei treni di Milano.
Non ci vedevamo da sei anni ed entrambi eravamo cambiati. Io indossavo una camicetta a cui mancava un bottone, un paio di stivali e degli shorts di jeans strappati. Tenevo tra le mani un gigantesco e sporco poncio, la mia unica difesa contro il freddo della notte. Ero stanca, struccata, sfatta. Lui era bello, pulito, in forma. Indossava una felpa blu, jeans e scarpe da tennis. Lo vidi così diverso da me e pensai che mi avrebbe evitato, facendo finta di non conoscermi, perché ai suoi occhi dovevo apparire una barbona. Ma poi fece scivolare gli occhiali da sole sul naso e mi sorrise. Pochi minuti più tardi, eravamo seduti sulla sua 127 verde bottiglia e ci infilavamo nel traffico di piazzale Loreto.
“Che ti è successo?” mi chiese dopo un silenzio imbarazzato.
Così gli raccontai, e lui disse solo: “Capisco”. Mise la freccia, ruotò il piccolo volante, ingranò una marcia, disse: “Adesso i miei non sono in casa. Vieni da me, hai bisogno di riposarti, mangiare e anche di un bagno. Ti preparo io qualcosa. Non sono Gualtiero Marchesi, ma due uova strapazzate riesco a farle se ti piacciono”.
Non mangiavo da quasi due giorni. Annuii e sorrisi. Aveva una casa bella e grande. Certo, la carta da parati era orribile e faceva venire voglia di strapparla con le mani, però avevano il frigorifero. Ed era pieno.
“Non credo di poterti dare gli abiti di mia madre, mi spiace, avete una taglia diversa, ma sicuramente una doccia ti farà bene” mi disse, allungandomi un telo.
Un’ora dopo, mentre mangiavo una mela a morsi, gli stavo raccontando di me, di come ero scappata, del mio desiderio di cambiare vita e del bambino che portavo in grembo. In quel momento arrivarono i suoi genitori.
Ci sedemmo attorno al grande tavolo del salotto e parlammo.
Il padre di Giuseppe ascoltava con gli occhi bassi. Si accese una sigaretta e tirò poche nervose boccate, prima di spegnerla nel posacenere con uno scatto. La madre stava in piedi, dietro di lui, a braccia conserte. Ogni tanto si agitava come se stesse per dire qualcosa ma poi si fermava. Sembrava sempre sul punto di camminare ma rimaneva ferma, poi mi interruppe e disse: “Non puoi rimanere in questa casa. Non c’è altro da aggiungere”. Provai a ribattere e allora urlò e mi sommerse di insulti, umiliandomi e facendomi piangere. I due uomini presenti alla scena non dissero una parola, mentre io aprivo la porta e me la richiudevo alle spalle.
Me ne tornai alla stazione centrale, l’unico posto che conoscevo, nella speranza di farmi venire qualche idea, pronta a trovare una soluzione d’emergenza per la notte. Qualche ora dopo, Giuseppe mi comparve davanti.
“Come hai fatto a trovarmi?”. Avevo bevuto e fumato, ero poco lucida e furiosa.
“Speravo fossi qui”.
“Dove sei stato finora?”.
“Ho discusso con mia madre. Di te”.
“Ah, sì?”.
“Avresti dovuto farlo prima che mi umiliasse in quel modo. Perché non hai reagito?”.
“Ma io…”.
“Niente ma”.
Mi afferrò per le braccia e mi guardò dritto negli occhi: “Senti… Tu sei piombata nella mia vita in questo modo, cosa pretendevi? Ed io… Forse non sono riuscito subito a intervenire… Ma per difenderti, rischio di aver compromesso per sempre i rapporti con mia madre… Quindi non venire a dirmi… Niente ma! Adesso tu mi ascolti”.
Lo spinsi via e sbiascicai. “Stronzo, lasciami in pace. Io non ho bisogno di te, io non ho bisogno di nessuno!”. Lo graffiai, sullo zigomo e la cicatrice gli è rimasta per sempre. Poi scoppiai a piangere e mi buttai tra le sue braccia. Piansi tantissimo mentre il peso di tutta la mia vita si alleggeriva e mentre con le braccia mi stringeva al petto e mi sorreggeva. Quella notte facemmo l’amore, in una camera d’albergo che lui aveva prenotato per me. Mi comprò dei vestiti e mi disse di non preoccuparmi di nulla, che avrebbe pensato a me.
“Cosa intendi dire?”.
“Ho preso la mia decisione. Ho già trovato un piccolo appartamentino in affitto. Ho parlato con mio padre, mi sosterrà economicamente mentre trovo un lavoro. Io e te vivremo insieme e cresceremo il bambino”.
“Ma tu non volevi andare all’università”.
“Mia madre ci teneva tanto, io…” scrollò le spalle.
“E il tuo sogno di diventare giornalista, come tuo padre?”.
Mi prese le mani tra le sue e le baciò. “Tu sei il mio sogno. E l’università non è l’unico modo…”.
“Non devi…”.
“Ormai ho preso la mia decisione. Anche se forse mia mamma non mi parlerà mai più”. Rise.
Giuseppe trovò lavoro come impiegato contabile il mese seguente. Odiava quel lavoro, ma ogni mattina usciva di casa dandomi un bacio e regalandomi un sorriso. Quando la porta di casa si chiudeva però, iniziava il mio incubo. La deformazione del mio corpo, i dolori, la paura, la fatica nel fare quello che prima mi risultava facile, provare a tenermi lontana da alcool, fumo e droghe. Ogni mattina cercavo di alzarmi al suo stesso orario ma spesso mi salutava nel sonno e poi usciva. Quando accadeva, io mi alzavo intorno a mezzogiorno. Poi cercavo almeno di fare i mestieri, ma smettevo praticamente subito. Odiavo quel buco di appartamento. Mi mancavano i giorni passati con Mirko. Fa male ammetterlo ma era così. Giuseppe mi riempiva di attenzioni e premure, cercava sempre di anticipare i miei bisogni, portava a casa uno stipendio buono considerando che era agli inizi e si comportava con giudizio. Ma le emozioni provate su quel furgone con Mirko, erano di altro livello. Pativamo la fame ma eravamo vivi. A casa avevo un giradischi e ogni tanto mi sdraiavo sul divano e ascoltavo un album. La sera, quando Giuseppe arrivava si guardava intorno, prendeva atto del casino e poi non diceva una parola. Si toglieva la giacca e chiedeva soltanto: “Preparato qualcosa per cena?”.
Di solito indicavo il frigo, dove conservavo gli avanzi del pranzo che avremmo riscaldato, sempre cose semplici e nemmeno cucinate bene, visto che non ero capace. La mia condizione di donna in gravidanza spingeva Giuseppe ad essere completamente al mio servizio. Io non glielo chiedevo ma lui lo faceva ugualmente e questo mi dava i nervi. Si preoccupava dei piatti e di tutte le altre faccende domestiche. Ogni tanto invece di riscaldare ciò che avevo lasciato nel frigo, cucinava lui. E così le sue serate passavano dietro i fornelli, oppure a lavare i piatti, pulire il bagno, spazzare a terra e poi crollava a letto, distrutto. Ed io che trascorrevo l’intera giornata da sola a deprimermi, quando lui arrivava a casa la sera desideravo solo accocolarmi al suo fianco sul divano. La cosa peggiorò con l’avanzare della gravidanza, quando lui aveva paura di toccarmi per timore di far male al bambino e spesso nei lunghi pomeriggi invernali piangevo, perché mi sentivo in colpa che avevo rovinato la mia vita e anche la sua. E i giorni trascorsi sul furgone con Mirko mi mancavano sempre di più.
In primavera, il mio stato mi aveva costretta a passare la maggior parte della giornata a letto. Ormai Giuseppe usciva presto la mattina, rientrava la sera, si occupava delle faccende domestiche e poi guardava mezz’ora di televisione, prima di addormentarsi. Non ci parlavamo nemmeno più. E il modo in cui guardava la mia pancia, a volte, mi faceva percepire tutto il suo disagio, per il fatto che quel bambino non era suo. Sarebbe davvero riuscito ad amarlo come diceva?
Il 3 giugno del 1977, nacque Cassandra, una bimba di 3,8 kg in perfetta salute.
Credevo che con la sua nascita, tutto si sarebbe sistemato. Invece le cose peggiorarono ancora. Quella bimba da gestire era un casino. Per fortuna, Giuseppe era adorabile con lei ma il problema era che io non riuscivo ad amarla. Che persona orribile ero.
“Dove andremo in vacanza?” dissi un giorno. Allungai una mano sulla coscia di Giuseppe e sussurrai al suo orecchio: “Desidero fare follie con te… È stato un anno difficile e vorrei che ce lo lasciassimo alle spalle. Adesso siamo noi tre e affronteremo tutto”.
“Non so, io ho bisogno di riposarmi” rispose.
“Cosa intendi dire?”.
“Che ho bisogno di riprendermi, è stato un anno durissimo come hai detto anche tu. Non posso prendere e partire all’avventura, ho bisogno di ferie tranquille. Lo capisci questo, vero? E poi adesso abbiamo una bimba a cui pensare, no?”.
Un sabato pomeriggio, uscii di casa e non rientrai fino a domenica sera. Trascorsi la notte dormendo per strada, avevo bisogno di semplice libertà. Il giorno seguente litigammo di brutto. Un’altra volta sparii un’intera settimana. Quando tornai a casa, mi invitò a sedermi al tavolo della cucina.
“Si può sapere dove sei stata?”.
Non risposi.
Allora sbottò e mi raccontò di tutte le difficoltà che aveva passato a causa mia, per andare a lavoro e badare a Cassandra e che era stato costretto a chiedere aiuto a sua madre.
“Non ho la forza di continuare così, capisci?”. Stava piangendo.
Non risposi. Abbassai gli occhi sul tavolo.
“Ma che problema hai?” urlò.
“Che problema ho? Come fai a non capire che problema ho? Senti…”.
Mi interruppe: “È vero, non è questa la vita che vogliamo, ma insieme possiamo farcela a cambiare le cose” poi ripeté “Insieme, possiamo farcela”, mi toccò una mano ed io percepii una fortissima scossa.
“Ci voglio provare. Io e te insieme, Giuseppe. Ce la faremo”. Sorrisi.
Qualche settimana dopo, incontrai Mirko, per caso. Era a Milano per vedere il concerto di Santana al Velodromo Vigorelli. Aveva detto che aveva trovato un modo per entrare senza pagare.
“Come stai?”.
“Per me tutto come sempre. Vivo nel mio furgone, viaggio. Faccio un po’ più di soldi con la musica, però. Ho degli amici che mi stanno aiutando…”.
“Mi manca quella vita”.
Poi mi disse: “Perché sei andata via così? Mi hai fatto impazzire… Raccontami del bambino, ti prego”.
“È una bambina, si chiama Cassandra”.
“Che nome meraviglioso”.
Ne parlammo tutta la notte e ad un certo punto capii che c’era un’unica cosa giusta da fare.
Quando Giuseppe aprì la porta di casa per farmi entrare, mi trovò insieme ad un uomo che non conosceva. Ma credo gli ci vollero pochi secondi per inquadrare la situazione.
“Piacere, sono Mirko…”.
“Il padre di Cassandra?”.
Ci sedemmo tutti e tre attorno al tavolo della cucina e alla fine, Mirko disse: “È mia figlia, deve venire con me. Spero capirai”.
“Capisco”.
Non fu necessario aggiungere altro e quella sera, preparai in fretta la mia borsa da viaggio, chiesi a Giuseppe se poteva lasciarmi qualche soldo e lo salutai, con un lungo abbraccio.
Giovanni Maglietta
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