
16 Gen Vite alternate – Ep.5
Hai già letto le puntate precedenti?
Mio padre, nato a Londra nel 1930, si era trasferito a Milano all’età di 23 anni, dove era diventato giornalista e critico cinematografico. Non era un’autorità del settore ma una di quelle figure che oliano i meccanismo e che permettono alle autorità di spiccare. A lui non interessava fare carriera, si dedicava semplicemente con tutto se stesso alla sua grande passione. Aveva un romanzo nel cassetto a cui lavorava nel tempo libero e che, a quanto ne so, è rimasto in quel cassetto.
Aveva conosciuto mia madre poco dopo il suo arrivo a Milano, gliel’aveva presentata un amico in comune. Loro invece, in comune non avevano nulla. Lei era napoletana ed era molto bella. Lo so perché ho visto una vecchia fotografia dell’epoca. Io invece mamma l’ho sempre ricordata un po’ grassa e trasandata. Non si era più ripresa dopo la gravidanza e (così diceva papà quando litigavano) si lasciava andare alla monotonia della vita da casalinga. Si erano conosciuti al bar Basso, lo storico bar di Milano in cui è stato inventato il Negroni sbagliato. “Piacere Anthony” aveva detto mio padre. “Piacere Linda” aveva risposto mia madre. Poi lei lo guardò a lungo, sorrise e disse: “Antonì… Tu si Antonio quindi… Tony. Non è chiù bello Tony de Antonì?”.
Mio padre aveva riso, il che non accadeva spesso. Divennero complici e la loro complicità durò fino alla sera in cui lui le aveva afferrato la mano in una notte di luna piena, si era messo in ginocchio e aveva pronunciato le fatidiche parole. Dopo il “Sì” di mia madre, tutto cambiò. I preparativi del matrimonio, la vita di coppia, la routine, la noia, le differenze che facevano sentire il loro peso nelle questioni quotidiane. Lui che si considerava superiore e la trattava come una ritardata, lei che lo riteneva noioso, lo prendeva in giro e lo insultava, dicendo che non aveva autoironia. “Tu sì proprio inglese… sembra che c’hai una scopa ritta ritta, dint’o culo!”.
Anche io sono stato sul punto di sposarmi. Era il 1993. Lavoravo sempre come contabile e ormai i miei sogni di giornalista erano solo un ricordo sbiadito tra le pieghe del tempo. Una pagina di giornale stampata male e conservata in un cassetto, un trafiletto a cui mancava la data di un ipotetico futuro che non si sarebbe mai realizzato. E il 1993 fu l’anno in cui l’azienda in cui lavoravo era in piena crisi e rischiavamo una pesante ristrutturazione. Succede di rischiare, anche quando sei un dipendente, convinto che la solidità del tuo lavoro fisso sia l’unico motivo che dia un senso alla tua vita. Ma l’azienda aveva perso diversi clienti importanti uno in fila all’altro e c’era da poco un nuovo direttore, che fin da subito aveva scherzato sul fatto che eravamo in troppi e che quello che si faceva in cinque, poteva anche esser fatto in quattro. Alcuni di noi dovevano andarsene ed io potevo essere tra quelli. Da tre notti non dormivo e in quella, nello specifico, ricordo che avevo avuto forti dolori di pancia. Il giorno dopo era il compleanno di mio padre. Non avrei voluto andare a lavoro per nessun motivo, ma non potevo nemmeno rimanere a casa. Così mi ritrovai alle nove in ufficio, con il mio responsabile che mi stava urlando contro ed io che non me ne resi nemmeno conto, finché non pronunciò tre volte il mio nome e poi disse: “Ma mi sta ascoltando?”.
Mi veniva da vomitare. A lavoro mi accadeva spesso, ma dovevo resistere, non potevo perdere anche l’unica cosa che mi permetteva di rimanere attaccato alla mia idea di dignità. Un uomo comincia a perdere la propria dignità nel momento in cui svilisce se stesso, accettando la vita senza combattere. Un uomo è senza dignità quando ogni giorno si trascina senza provarci nemmeno, quando non fa nemmeno il minimo indispensabile. Un uomo è senza dignità quando sente bruciare una passione e la soffoca, soltanto perchè ha troppa paura di viverla e un uomo così, ogni giorno muore.
In quel periodo, prima di addormentarmi, certe volte pensavo ancora ad Elisa e a come sarebbero andate le cose se non l’avessi incontrata di nuovo. Forse avrei potuto davvero provare a fare il giornalista. Ma per fortuna, finalmente stavo per sposarmi.
Quella sera, dopo l’ennesima giornata insopportabile, uscito dal lavoro andai al centro commerciale, per mia madre. Una confezione di uova, latte parzialmente scremato, farina. Doveva fare la torta per il compleanno di papà. E dico doveva, perché il piacere di quel gesto era ormai scomparso da anni, rimaneva quella tradizione forzata che lei si sforzava di rispettare. Afferrai le uova da sopra lo scaffale e le misi nel carrello. Voltai lo sguardo e in quel preciso istante il tempo si fermò. Misi in pausa il Walkman con il quale stavo ascoltando gli 883, e rimasi a fissarla. Da quando si era portata via Cassandra, non avevo più avuto sue notizie.
Eppure eccola. Indossava jeans e una camicetta colorata. Mi sorrise reclinando leggermente la testa di lato. Era bella come la ricordavo. Anche io sorrisi, in automatico. Fu uno di quei momenti in cui provi quella sensazione in perfetto equilibrio tra la paura e la felicità. Disse: “Ciao” e fu come se tra di noi non fosse mai successo nulla. Così ci ritrovammo a parlare in un bar del centro commerciale e mi raccontò di lei. Si era sposata con Mirko e tutto sommato erano felici. Lui aveva trovato un lavoro come operaio e ogni tanto la sera suonava in qualche locale. Lei badava alla casa e alla piccola.
“Non l’avrei mai detto che ti saresti sposata prima di me, sai?”.
Ridemmo, scherzammo, rievocammo i ricordi e poi, non so cosa accadde ma ci ritrovammo nella zona industriale di Milano Oltre, sul sedile posteriore della mia macchina a fare l’amore, ancora una volta.
“L’ho sognato tante volte, Giuseppe” disse mentre mi accarezzava una mano.
“Mi sei mancata” la baciai su una guancia “Ma questo non… Credo sia meglio che non ci vediamo mai più”.
Un pomeriggio si presentò davanti all’uscita del mio lavoro. Mi prese sotto il braccio e sorrise. “Ti devo parlare”.
Paura.
Dopo un lungo silenzio, disse: “Sai la novità?”.
Scossi il capo.
“Ho lasciato Mirko. Definitivamente”.
“Scherzi?”.
“Averti rivisto mi ha dato il coraggio per farlo”, mi baciò sulla guancia.
“E adesso?”.
“E adesso niente… Sono libera… in qualche modo me la caverò”. Alzò gli occhi al cielo, poi si accese una sigaretta.
“E tua figlia?”.
“Starà con lui. È più giusto, per il bene di lei. Io non sono in grado di badare a Cassandra, se non riesco prima a riequilibrare me stessa”.
“Non puoi essere seria”.
Mi guardò dritto negli occhi, si avvicinò fino quasi a sfiorarmi il viso con il suo, disse: “Tu, cosa ne sai?”.
Poi, mentre mi teneva le mani disse: “Giuseppe tu mi ami ancora, vero?” fece una pausa e poi aggiunse “Vieni via con me, facciamoci una nuova vita insieme. Hai detto che a lavoro va male, potremmo viaggiare, ricominciare e tu… potresti finalmente fare il giornalista”.
“Non puoi… non puoi piombare nella mia vita così… Mi serve tempo. Tempo per pensare”.
“Va bene, questo è il mio nuovo indirizzo”.
E così divenne la mia amante.
“Non ti manca tua figlia?” le chiesi una volta.
“Al momento giusto… tornerò a riprendermela. Adesso non ho la forza”.
Una mattina, davanti allo specchio mi dissi: “Clara non merita questo”. Quella sera stessa le telefonai e le chiesi di vederci.
“Tesoro…” dissi e le afferrai le mani.
“In quest’ultimo periodo non sei più lo stesso. Che succede? Sei agitato per il matrimonio?”.
“Sì… Ma c’è dell’altro”.
“Di cosa si tratta?”.
“Non so come dirtelo in realtà… Non è una cosa semplice. Oddio, io non ce la faccio” mi voltai di lato e piansi.
“Giuseppe, che succede?”.
“Clara, io…”.
“Ascoltami” disse .“Da qualche tempo non sei più tu. Cosa credi” tratteneva le lacrime “Una donna, certe cose le sente… A chi pensi quando facciamo l’amore?”.
“Clara, io…”.
“Per favore, evitami scene pietose. Vorrei almeno conservare la mia dignità. Dimmi solo cosa hai deciso”.
Pochi minuti dopo camminavo per strada con le mani in tasca. Clara mi aveva lasciato. Mi infilai in una cabina telefonica mentre cominciava a piovere. Introdussi la scheda e composi il numero di Elisa. Avevo bisogno di conforto.
“L’ho fatto, ho parlato a Clara”. Scoppiò a piangere, riattaccò. Quella sera a casa sua era andato Mirko e anche loro avevano parlato. Cosa si dissero lo scoprii solo qualche mese dopo, quando Elisa mi mandò una lettera. In pratica lui aveva parlato con Cassandra e l’aveva coinvolta in una delicata decisione. Così aveva mollato il lavoro e aveva investito tutti i risparmi in un nuovo furgone. E subito dopo era andato da Elisa e l’aveva invitata a partire con loro.
Stamattina il molo è vivo ed intriso di un’energia calda e genuina. Ci sono famiglie con bambini, pescatori dalle mani ruvide, una bella ragazza con un cagnolino bianco, una donna della mia età, che credo stia fumando. La sua figura di spalle mi ricorda qualcosa di Elisa, magari fosse lei, ancora la amo, ancora mi manca. Sta guardando quella coppietta di adolescenti a cui ho dato una sigaretta. Lui tira la sua innamorata per una mano, le fa fare una piroetta, i capelli della ragazza danzano nel vento, poi si sbilancia in avanti e il suo cavaliere la cinge tra le braccia. Si guardano, ridono, si baciano. Quei due ragazzini mi ricordano me ed Elisa a quattordici anni. Era l’anno in cui si sciolsero i Beatles, il mio primo lutto musicale. Poi venne trovato morto Jimi Hendrix in quella camera d’albergo. Il mio secondo lutto musicale. Stavo perdendo ogni speranza, ogni possibilità di sognare. Ma furono i Led Zeppelin a salvarmi, con la pubblicazione del loro quarto album. E poi fu quella notizia, quando finalmente, mamma disse che saremmo tornati a Rimini, perché: “È la chiusura di un cerchio. Voglio veramente lasciarmi alle spalle il passato, Giusé’”.
“Rimini, veramente? Mamma… ma sei sicura che vuoi andare in macchina?.
“Giusé… non ti fidi di me?”. Usare la macchina era per lei una sorta di rivalsa personale. Si cimentava spesso in tutti i compiti tipicamente maschili, anche perché mio padre non era particolarmente portato. E soprattutto non aveva voglia. A volte riusciva abbastanza bene, come quando riparò da sola la porta del bagno esterno del condominio, o quando insieme ad un’altra sua amica, imbiancarono casa. Altre volte faceva più fatica, proprio come quando si metteva al volante della sua cinquecento gialla. Ricordo il tempo che trascorreva a manovrare l’auto poco più grande di un tavolo da sei persone, per farla entrare nello spazio in cui ci sarebbe stato comodo un moderno Suv. Ogni tanto, scendevo dall’auto e le davo indicazioni, alcune volte gliela parcheggiavo direttamente io. Era stato papà a darmi lezioni di guida, mamma questo non poteva sopportarlo ma almeno la cosa tornava utile nei momenti più disperati. Così partimmo, con quella scatola. Ed eravamo tanto carichi di valige che avevo dovuto tirare avanti il sedile e stare con le ginocchia schiacciate tutto il viaggio. Il sole sembrava essere convogliato sulla nostra macchina attraverso una lente di ingrandimento, e a mezzogiorno dissi a mamma che se aveva due uova, avrei potuto aprirle sul lunotto e cucinarle. Lei rise, ma boccheggiante, come un pesce fuori dall’acqua.
“Mamma ma perché ci suonano tutti?” le chiesi dopo una mezz’ora di autostrada, quando le auto ci sfrecciavamo a lato, suonando i clacson.
“La gente non sa guidare” rispose lei che stava ingobbita sul volante della cinquecento come fosse il timone di una gigantesca nave.
Passammo il ponte sul Po’ e infilai la cassetta con l’album dei Beatles nell’autoradio. Chiusi gli occhi.
“Cos’è questa roba?” disse mamma infastidita.
“I Beatles, mamma”.
“Ascoltali con tuo padre”.
Nel tardo pomeriggio arrivammo alla pensione a due stelle, che era il massimo che potevamo permetterci. Un albergo in cui a mezzogiorno servivano la pasta con un sugo insapore ma in cui ho mangiato uno dei risotti più buoni della mia vita. E stavamo al lido del bagno cinquantuno, quello convenzionato con l’albergo.
Il primo giorno ero così bianco, che in mezzo agli altri bambini sembravo la panna degli Oreo. Il secondo giorno in compenso, dopo una bella insolazione, la mia pelle divenne color aragosta. Il terzo infine, stetti in maglietta sotto l’ombrellone e non mi mossi, perché l’ultima cosa che volevo, era incontrare Elisa in quello stato. Il quarto giorno finalmente, la mia pelle cominciava ad assomigliare a quella degli altri ragazzini e quindi decisi che era il momento giusto per muovermi. Anche perché un terzo della vacanza era già passato.
“Mamma vado a fare una passeggiata”.
“Va bene, ma torna per pranzo”.
Dopo pranzo: “Mamma io vado a fare un altro giro”.
“Ancora? Ma non hai proprio niente da fare? Ti stai annoiando, Giusé?”.
“No, mamma, tranquilla… Anzi”.
“Ok, ma ricorda che alle sette e mezza si cena in albergo”.
Passeggiavo nella zona del bagno sette, quando la vidi. Era girata di spalle ma capii subito che era lei. Mi aveva recentemente mandato una sua foto ma l’avrei riconosciuta anche senza. Com’era diventata bella. I capelli lunghi e neri le scendevano sulla schiena e il suo fisico mostrava le prime forme. Decisamente non era più una bambina. E in quel momento, quando l’avevo trovata, mi sentii mancare, come se la sabbia sotto i miei piedi avesse cominciato a muoversi e a farmi sprofondare. Così continuai a camminare, facendo finta di niente. “Non posso” mi ripetevo. C’erano anche dei maschi nel suo gruppo, ragazzi più grandi di noi. Magari stava con quello più alto e carino, magari mi avrebbero preso in giro e mandato via. Dopo un po’ ritornai. Era la terza volta che passavo e il disagio continuava a crescere. Ero andato a Rimini solo per quello, così raccolsi tutto il mio coraggio e mi avvicinai. Fu una sua amica dai capelli biondi, la prima a notarmi. Mi guardò con sospetto, mentre facevo dondolare il ciondolo che Elisa mi aveva regalato e mentre pronunciavo il suo nome.
Giovanni Maglietta
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