Vite alternate – Ep.6

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Vite alternate – Episodio 1

Vite alternate – Episodio 2

Vite alternate – Episodio 3

Vite alternate – Episodio 4

Vite alternate – Episodio 5

Il mio nome è Elisa e sono nata a Rimini, il 5 ottobre 1956, da padre romagnolo e madre veneta. Mia madre aveva conosciuto quell’amore di sette anni più grande di lei, in villeggiatura. E lui l’aveva messa incinta. Lavorava come avvocato ed era sempre fuori casa. Usciva la mattina presto e dopo il lavoro andava a bere. Rientrava ubriaco, spesso con addosso il profumo di qualche sgualdrina, sbraitava con mia madre, la faceva piangere e poi andava a dormire. La mattina seguente si alzava presto, si sbarbava, si lavava e poi andava a lavoro. Nel week end era sempre impegnato con gli amici, giocava a golf, andava a sciare, in barca a vela. I miei genitori non parlavano mai. Lui le passava una parte dei soldi che guadagnava e lei si occupava di tutte le faccende domestiche e ne avanzava anche per lei, me e mio fratello. E se provava a coinvolgerlo in qualche decisione, di solito lui la offendeva dicendo che non era capace di prenderle da sola. Mi domando perché due persone così, dopo mio fratello abbiano voluto un altro figlio. Ma probabilmente non mi hanno voluta, sarò stata un incidente pure io. Mi fa schifo pensare che sono figlia di quell’uomo, un’oscura entità estranea al nostro nucleo familiare. All’età di nove anni smisi di chiamarlo papà. Accadde in quella sera, che ricordo come se fosse ieri. Mi svegliai per fare pipì. Lui rientrò a casa barcollando come sempre. Stavo già immaginando di uscire e corrergli incontro, per abbracciarlo. Volevo fargli sapere che mi era mancato, avevo solo nove anni.

Ma lo sentii urlare: “La finisci? Io mi faccio un culo così, solo per garantirvi il meglio… e questo è il tuo ringraziamento? Basta con questi dubbi, questi sospetti”.

Quelle urla mi ricordarono altre urla che a volte sentivo nel sonno ma che non riuscivo mai a collocare, se non nei miei sogni. I litigi dei miei genitori. E i pianti che sentivo dopo, erano le lacrime di mia madre.

Avevo paura.

Non tirai l’acqua, spensi la luce, scostai appena la porta del bagno e sgusciai fuori. Mia madre disse: “Ancora!” strattonò il colletto della sua camicia “Queste sono macchie di rossetto!”.

Lui biascicò scuse incomprensibili.

Poi mia madre crollò: “Io proprio non ti piaccio?”.

“Non dire così, tesoro” disse avvicinandosi, provando a cingerle spalle.

Barcollava.

“Non chiamarmi tesoro”.

La baciò sul collo. “Ma come, tesoro?”.

“Non chiamarmi tesoro…” poi abbassò la voce e ripeté “Non chiamarmi tesoro” e si scostò.

“Dai, non fare così…”.

Mia madre voltò la testa di lato, mentre lui si avvicinava e sussurrava: “Dai, lo sai che ti amo” poi la baciava sul collo. Lei rimase immobile come fosse una bambola, mentre lui continuava a baciarla e toccarla. Le sollevò l’orlo della veste, stringendole con forza una gamba e poi la spinse verso il tavolo della cucina. Io assistevo a quella scena senza capire cosa stesse succedendo ma sentendo crescere in me l’odio verso di lui, insieme ad un sentimento che non sapevo definire, verso una madre così arrendevole e che si voleva male a tal punto da lasciarsi usare in quel modo. Poi, la mamma reclinò la testa, mentre lui consumava i suoi comodi e ci fu quell’attimo che è rimasto per sempre indelebile, come forgiato nello stampo della mia memoria. Gli occhi di mia madre stanchi, dolorosi ed umiliati che incrociarono i miei. Il suo sguardo si riempì di vergogna, mentre lui si allontanava da lei, per sedersi sul divano a fumare una sigaretta.

I miei si erano sposati perché mio padre aveva messo incinta mia madre, di sette anni più piccola, una sera che aveva bevuto troppo. Così era nato mio fratello maggiore, identico a mio padre in tutto e per tutto, altro bello stronzo.

A quattordici anni, odiavo già in modo irreversibile tutta la mia famiglia. Ma fu anche il periodo in cui rividi più spesso a casa mio padre la sera, perché seguiva gli aggiornamenti del mondiale di calcio in Messico. Fu l’anno di quella famosa partita Italia-Germania 4-3, l’anno in cui la frase: “Houston abbiamo un problema” fu pronunciata per la prima volta, l’anno in cui ci fu la prima edizione della maratona di New York, in cui in tv appariva “Pippi Calze Lunghe” e al cinema usciva “Lo chiamavano Trinità”. Ho un ricordo particolare di quel film, perché andammo al cinema io e mio fratello a vederlo.

Fu l’ultima cosa che facemmo insieme, prima che lui scappò di casa, per non tornare mai più. Il 1970 fu anche l’anno nel quale fu attivata la teleselezione in Italia e si poteva chiamare in numeri con il prefisso senza più sentire la voce delle centraliniste che ci mettevano in contatto con il destinatario della chiamata. Oggi mio nipote ha uno smartphone. C’è anche una cosa chiamata “Facebook” che gli permette di comunicare in tempo reale con le persone in ogni parte del mondo. Chissà se io e Giuseppe avessimo avuto Facebook, come sarebbe andata tra di noi. La tecnologia si è evoluta eppure le macchine non volano, mentre i miei amici che mi portavano in giro con la Fiat 127 erano convinti che ciò sarebbe successo. Le cose prendono sempre pieghe imprevedibili. I miei amici erano più grandi di me e mi accettavano nel loro gruppo perché stavo con Giorgio.

Loro e Giorgio la sera uscivano spesso ed io, quando mio padre tornava tardi e non rompeva, uscivo con loro. Mia madre non era in grado di impedirlo e mio fratello si disinteressava completamente. Qualche mese dopo sarebbe andato via, dopo una lite furibonda con i miei. Ho impressa nella memoria la sua sagoma di spalle, con i capelli ricci, la giacca di pelle due taglie più grande, i jeans chiari e gli stivali.

Nelle sere d’estate, io e i miei amici andavamo ad ubriacarci con il vino rosso in spiaggia, poi fumavamo qualche spinello. Secco, il miglior amico di Giorgio aveva una chitarra. Ci mettevamo seduti in cerchio, con la birra in mano e cantavamo fino a tardi. A volte parlavamo di politica, dei nostri sogni e della voglia che avevamo di cambiare il sistema. Non sapevamo che ad uno ad uno, quel sistema contro cui combattevamo, ci avrebbe inghiottiti.

Poi, mentre Secco suonava, le varie coppie si dedicavano ad altri divertimenti. Spesso Secco rimaneva da solo a suonare, immerso nella sua musica e un po’ fatto, altrettanto spesso ad un certo punto la musica finiva e lui andava via con una ragazza. Sempre una diversa.

Secco aveva i capelli ricci e portava una fascia. Aveva un viso magro e allungato e il naso sporgente. Giorgio era più carino. Capelli biondi e lunghi, sguardo rassegnato, faceva box e aveva spalle larghissime. Sognava di diventare un boxer professionista e sognava anche la libertà e un mondo migliore. Era un idealista. Ma ogni giorno i suoi sogni venivano alienati dal lavoro nella fabbrica di scatole del padre. Lui era il mio personale surrogato di un padre e un fratello maggiore che non avevo avuto. Era gentile, carino e davvero innamorato. Solo che aveva quattro anni più di me.

Fumo l’ultimo tiro di sigaretta, mi avvicino al cestino della spazzatura, la spengo sul bordo e poi la lascio cadere al suo interno, ripensando a come io sia riuscita a rovinare tutto con lui.

Era un pomeriggio, eravamo in spiaggia, ci annoiavamo, chiacchieravamo, fumavamo. Mi sentii chiamare: “Elisa”.

Mi voltai e vidi i suoi capelli rossi scompigliati dal vento e il viso identico a quello dell’ultima fotografia che mi aveva inviato, un po’ troppo magro, con i capelli rossi e le lentiggini. Indossava una T-shirt orribile, un paio di pantaloncini color cachi e teneva in mano il ciondolo che gli avevo regalato cinque anni prima. Ciò che sentii fu una gioia, un’emozione, un bene che non pensavo di poter provare. Avevo seppellito quei sentimenti per paura di soffrire ma ero innamorata.

Dagli altoparlanti della publiphono passava la canzone “La lontananza” di Domenico Modugno.

Io che credevo d’essere il più forte, mi sono illuso di dimenticare, e invece sono qui a ricordare… a ricordare te.

Gli corsi incontro e lo abbracciai. “Ciao Giuse… quanto mi sei mancato”.

Io mi strinsi fortissimo a lui che timidamente mi cingeva tra le sue braccia, come se stesse toccando una reliquia, che avrebbe potuto frantumarsi.

Lo invitai a sedersi con noi.

“Lui è Giuseppe, un amico. È tanto che manca da Rimini, non conosce nessuno oltre me, vi va se si unisce a noi?”

Giorgio disse: “Sigaretta?”.

Giuseppe rispose: “No, non fumo, g-grazie”.

“Bravo ragazzo” disse Francesca, facendo un tiro. Poi si avvicinò e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, allora Giuseppe fece una battuta stupida e lei rise.

“Andiamo a fare il bagno?” disse Secco.

“Sì dai!” disse Giorgio.

“Io non mi sento tanto bene” dissi “Giuse, rimani a farmi compagnia?”.

“Cosa?” disse Giorgio “Davvero non stai bene?”.

“S-sì… Ho mal di pancia”. Mi guardò a lungo, poi scrollò le spalle e disse: “Va bene… Allora puoi tenermi tu l’orologio per favore? È subacqueo, ma sai com’è”.

Giorgio non si separava mai dal suo orologio.

“Va bene lo tengo io”. E lo presi tra le mani.

“Ci vediamo dopo. Andiamo Secco!”.

“Simpatici i tuoi amici”.

“Dici? Mi fa piacere. Credo che anche tu sia simpatico a loro… possiamo uscire tutti insieme qualche volta. Senti, posso chiederti un favore?”.

“Dimmi tutto…”.

“Puoi tenere tu questo orologio per favore? Vorrei avere il polso libero. E poi voglio vedere come ti sta”.

“Certo” sorrise, poi si incupì.

“Cosa c’è?”.

“Niente… sai… Non ci vediamo da cinque anni… Ho immaginato tante volte questo momento e adesso che siamo qui…”.

“Ti sta bene l’orologio. Davvero, sembri un uomo… Dicevi? Adesso che siamo qui?”.

“Adesso che siamo qui, non so davvero cosa fare”.

“Baciami”.

“Ma…”.

“Baciami”.

Avvicinai le mie labbra alle sue e lui colmò la distanza, proprio come cinque anni prima. Prima ci sfiorammo leggermente, poi ci schiacciamo uno contro l’altra. Le nostre lingue si intrecciarono, disegnando piaceri ancora da esplorare, mentre le nostre mani li scoprivano. Poi Giuseppe si staccò e disse: “È proprio questo, ciò che vuoi?”.

“Vuoi sapere davvero, quello che voglio?”.

Lui fece un timido cenno con il capo.

“Vieni con me”.

Lo presi per mano e lo condussi in un anfratto tra gli scogli, dove io e Giorgio eravamo soliti appartarci. Era incredibile ciò che stava accadendo, ma non riuscivo a smettere, non pensavo ad altro. Lì, in quel posto, continuammo a baciarci, poi gli infilai una mano nel costume e strinsi la sua eccitazione. Non mi ero mai spinta fino a quel punto con nessuno ed ero emozionatissima.

“Per me è la prima volta” si lasciò sfuggire.

“La prima volta di cosa?” chiesi mentre continuavo a baciarlo.

“La prima volta che mi trovo in una situazione come questa… Non sai quanto ho desiderato questo momento”.

“Shh” dissi, posandogli un dito sulla bocca. Gli presi una mano e me la portai sui seni, mentre con l’altra continuavo a giocare con lui. Poi, senza avere consapevolezza di ciò che stavamo facendo, lo invitai ad entrare dentro di me. Stava avvenendo tutto in modo così naturale e meraviglioso ed io, finalmente, ero di nuovo felice.


Giovanni Maglietta

Vite alternate – Episodio 7

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